Chi sono non lo so. Sarà la vita a dirmelo.
J.W. Goethe
Anche per quanti non amano i sequel, BladeRunner 2049 non si poteva mancare.
Il capolavoro di Ridley Scott tornava in versione Villeneuve e, per i sopravvissuti a tanto ritardo,l’occasione di poter ripetere l’esperienza postumana confezionata nel‘68 da Philip Dick e liberamente ripresa nel 1982 da R.Scott, era ghiotta.
Ancora la pioggia acida ci avrebbe avvolti fra masse brulicanti di sbandati nel buio soffuso di lumi a gas e insegne al neon o ci saremmo infilati nelle stanze tetre dei templi gotici, dove regnavano le grandi corporation padroni della vita e della morte?
Lì trentacinque anni fa avevamo assistito alla lotta per la sopravvivenza tra Rick Deckard e Roy Batty, umano e disumano, avvinghiati l’un l’altro, terrorizzati dalla morte che li rendeva simili e nemici.
Era l’umanità(sic) del bladerunner, il cacciatore, ad essere scalfita dalla grazia concessagli dalla preda, in quel finale empatico-poetico memorabile (“io ne ho visto cose che voi umani….”) che ribaltava l’assioma cardine del replicante incapace di provare sentimenti, figuriamoci la pietà, secondo la prima lezione del testo di Philip Dick.
Già la pellicola del 1982, quindi, ci costringeva a ridefinire l’umano proiettati in quel futuro dove alla concezione naturale di homo-creator, capace di dare vita senza poter disporre di essa, si sostituiva quella di homo-faber, libero invece sia di creare che disporre della sua creatura: quei “lavori in pelle” (sarcasticamente così definite), così, nascondevano l’ultima e più sofisticata civiltà del dominio fondata sempre sulla manodopera sacrificabile, questa volta creata in laboratorio.
In quello scenario disumanizzato assistevamo al parricidio del costruttore di androidi al quale questi erano risaliti per chiedere ancora vita rispetto alla loro condizione terminale, ottenendo dal “padre” solo risposte disarmanti a conferma del rapporto di schiavitù originario e della irresponsabilità della tecnoscienza.
Distinguere l’umano dal robot, partendo magari da Alan Turing padre della cibernetica, è certamente l’argomento sul quale si avvolge il nastro di R.Scott che, nelle diverse versioni, non si allontana mai dal pensiero dello scienziato per il quale resta incerta la capacità di distinguere l’intelligenza artificiale da quella umana, la macchina dall’uomo; sino alla versione di un Deckart androide-a-sua-insaputa, costruito solo per “ritirare” gli schiavi ribelli.
Quel dubbio che fa da sfondo al film di R. Scott, nasce dal concetto che l’empatia, unico criterio per discriminare l’uomo dall’automa, possa non emergere dai test a cui il bladerunner sottopone le sue prede, semplicemente perché non tutti gli uomini sono realmente empatici (immaginate i vostri vicini) né tantomeno si può aver prova della loro coscienza essendo, questa, non esperibile dall’esterno: l’uomo ha coscienza solo della sua vita interiore mentre per quella altrui la desume dai loro comportamenti.
Per A. Turing, certi comportamenti umani potrebbe averli anche un robot adattato a simularli, così come avviene in BladeRunner, dove il padre costruttore ha malvagiamente “perfezionato” alcuni replicanti impiantandogli una memoria fittizia di ricordi ed emozioni che li fa vivere nella certezza di essere umani.
Quel test di Voight-Kampff utile a riconoscere il grado di empatia, e soprattutto l’artificio dei ricordi, li ritroviamo ribaltati, questa volta in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve dove l’agente K, professione: cacciatore di androidi, è un replicante di nuova generazione sottoposto lui a quei test per verificarne l’affidabilità e fedeltà all’uomo-padrone; mentre la sua memoria, per gran parte del film, è ingannata da flash di vita vissuta, che saranno poi causa della sua ribellione e del cammino a ritroso verso la propria natura e appartenenza.
Il “cacciatore” di Villeneuve sa, rispetto al precedente bladerunner di R.Scott, di essere una macchina costruita per difendere una “postazione umana” così asettica da far rimpiangere la città brulicante di 30 anni prima, quella Los Angeles distrutta da sembrare Aleppo separata da un muro oltre il quale bambini-schiavi lavorano per gli stessi costruttori di K.
Tutto questo non aiuta però alla visione del film che, lento, lungo e confuso in alcune parti, sembra rinunciare alle nostre recondite paure (come avviene nei film di fantascienza) a favore di una proiezione, color polvere e seppia, di ecatombe ambientali più vicine al nostro tempo rispetto anche a quello immaginato da Scott, ma non per questo meno angosciante per quel vuoto ossessivo dovuto alla perdita di un passato “glorioso” del quale restano solo immagini di vecchie glorie trasformate in ologrammi pronti a ripetere a comando i loro tristissimi refrain.
Con il sequel di Villeneuve si ribalta indubbiamente la costruzione duale uomo/macchina del primo Blade Runner, dove l’eterna lotta tra natura e scienza, reale e artificiale, celebrava comunque l’uomo con tutte le sue paure di fine millennio, proiettate nelle parole dell’alter-ego replicante e dei suoi tormenti di schiavo senza storia e senza destino.
Al ribelle Roy Batty si sostituisce ora, nel sequel, l’agente K custode insieme ad altri androidi del “miracolo” della prima nascita oltre-umana avvenuto ai tempi di Deckart e del suo amore replicante Rachel, e per questo pronti a creare il caos pur di diffondere il verbo della uguaglianza che abbatte ogni barriera tra creature, libere dal giogo eterno dei potenti.
Qualcosa di simile, rivolta agli uomini, è già arrivata anche a noi.
Tramandata da millenni.
Rolando Iaria