Si apre con un volto e si chiude ancora con un volto Tori e Lokita, il nuovo, splendido film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, giunti al loro dodicesimo lungometraggio di fiction (senza contare quindi i loro numerosi documentari), e presentato in concorso a Cannes dove ha vinto il Premio del 75º anniversario. Due volti giovani, due volti di esseri umani di pelle nera. Africani. Uno di giovane donna, quello con cui il film si apre, l’altro di un ragazzino, quello con cui il film si chiude.
Si apre con un primissimo piano su un volto dallo sguardo inquieto che sembra chiedere speranza, si chiude con un volto inquadrato dall’alto il cui sguardo volge verso il basso, nella mestizia. Proveremo a spiegare cosa rappresenti questo movimento tra l’alto e il basso, e a suggerire cosa nasconda questa mestizia del finale. Sono comunque due personaggi unici, che lasciano il segno, degni della grande letteratura per la precisione con cui sono delineati e per la loro presenza vitale.
Qualcuno troverà forse il cinema dei due registi belgi ripetitivo; al contrario noi pensiamo che quel cinema sia un raro miracolo nel tenersi in equilibrio continuo tra finezza, profondità, intensità, nell’esprimere al contempo grande forza morale e grande umanità pur essendo implacabile nella messa in scena, sempre serrata, di situazioni tra le più abiette di cui la gente comune, o altri immigrati, sono capaci. Un cinema più che mai necessario. E di conseguenza molto bene ha fatto la Lucky Red, che porta il film nelle sale italiane, a dedicargli una sorta di retrospettiva.
“Quale frase vorrebbe sulla sua tomba, come epitaffio?”. “Penso ancora a ciò che Albert Camus scrisse. ‘Forse non possiamo impedire a questo mondo di essere un mondo in cui i bambini soffrono. Ma possiamo diminuire il numero di bambini che soffrono. E se non ci aiuti tu, chi altro al mondo può aiutarci?’”.
Questo estratto di un’intervista di David Frost a Robert Kennedy per la Bbc, trasmessa nel maggio del 1968, poco tempo prima del suo assassinio, riassume forse il film nel suo senso più profondo. Il bambino abbandonato nel bosco dall’adulto assurge qui a simbolo di un’umanità intera abbandonata a se stessa. Detto in altri termini, se non ti interessi tu a noi, spettatore, chi altri lo farà?
Il peggio da temere e il meglio da aspettarsi è semplice da dire. Il peggio è la guerra atomica. Il meglio sarebbe questo: una vita di perpetua paura e tensione; un carico di armi che prosciuga la ricchezza e il lavoro di tutti i popoli; uno spiegamento e uno spreco di forza impiegato per sfidare il sistema americano o il sistema sovietico. Ogni cannone prodotto, ogni nave da guerra varata, ogni razzo lanciato significa, in definitiva, un furto ai danni di coloro che hanno fame e sono senza cibo, di quelli che hanno freddo e sono senza vestiti. Questo mondo in armi non sta spendendo solo soldi. Sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. Il costo di un moderno bombardiere equivale a una moderna scuola di mattoni in più di 30 città. Equivale a due centrali elettriche, ciascuna al servizio di una città di 60mila abitanti. Equivale a due ottimi ospedali completamente attrezzati. Equivale a circa cento chilometri di strade asfaltate. Questo è, ripeto, il miglior modo di vivere che si possa trovare sulla strada che il mondo ha intrapreso. Ma questo non è affatto un modo di vivere, in alcun senso legittimo. Dietro le nubi di guerra c’è l’umanità appesa a una croce di ferro.
Il discorso Chance for Peace che il presidente statunitense Dwight D. Eisenhower pronuncia nel 1953, poco tempo dopo esser entrato in carica, è quasi prologo o complemento alla frase di Kennedy. Riletto a distanza, risuona quasi come atto d’accusa a una politica - ma anche al mondo industriale e finanziario - che non pare più capace di produrre né discorsi alti né grandi visioni. Proprio quando ce ne sarebbe il massimo bisogno. In altre parole i due volti che aprono e chiudono il film dei Dardenne, ci interrogano sulla sofferenza di un’intera umanità, una sofferenza fatta anche di grandi speranze disattese che parte da lontano. Il bambino e con lui l’umanità tutta appesi da troppo, davvero troppo tempo, alla croce di ferro.
La rappresentazione di tutto questo in un’opera d’arte si può esplicare in più modi. Nel caso del cinema dei fratelli Dardenne, sono la regia e il montaggio in particolare a costruire, a scavare in profondità il senso del film, portandolo appunto più in alto, pur ritraendo, fotografando, quella realtà. Non bisogna mai stancarsi di comprendere meglio la sofferenza di quell’umanità, le sue dinamiche sociali racchiuse all’interno della vita più quotidiana, anzi la più prosaica. La più faticosa.
Tori è un ragazzino originario del Benin che spaccia per conto di un giovane cuoco dell’est che sfrutta anche al limite di ogni umanità la manodopera africana in serre segrete. Ma Tori esprime una distanza e una saggezza rispetto a tutto questo che lascia esterrefatti, da adulto. Ed è legatissimo a Lokita, giovane donna originaria invece del Camerun che lo ha protetto da quando si sono conosciuti nell’imbarcazione con cui sono arrivati. Lui, in quanto “bambino stregone” perseguitato, ha diritto automaticamente alla protezione e ai documenti, lei ha il sogno di diventare parrucchiera e tenta di avere i documenti cercando di far credere agli assistenti sociali che sono fratelli.
I Dardenne, che sono due fratelli veri da un punto di vista sia biologico sia spirituale, in appena un’ora e mezza costruiscono con precisione certosina la dinamica commovente del rapporto tra due esseri in totale simbiosi, fratelli non biologici ma legati spiritualmente anche se mossi in apparenza dal motore della necessità.
E mostrano però, con altrettanta precisione, come la dinamica economica sia inumana e costruita da altri esseri umani, in alto come in basso sulla scala sociale, facendo così eco in qualche modo alle parole di Eisenhower sui costi per le armi e i soldi destinati alle cose che sono davvero utili alla povera gente: un divario è diventato una voragine. Un’eco che tocca anche un paese come il nostro, ricco ma al contempo indebitato come pochi in Europa e tuttavia bisognoso più che mai di denari per i servizi sociali e dove nondimeno quasi l’intero spettro politico si dice d’accordo nell’aumentare la spesa degli armamenti per chissà quali conflitti. Il film tratta dell’ingranaggio depauperante dell’umanità tutta. Guarda dal basso verso l’alto.
Abbiamo detto che la necessità è il motore apparente. Ma ben concreto. La costante necessità. L’affanno. Quell’affanno concreto ed esistenziale che i Dardenne, figli della grande lezione del cinema di Robert Bresson (nel 2011 a Venezia vinsero anche il premio intitolato al regista), hanno rappresentato con la camera ansiogena ma etica sul corpo della povera Rosetta - Palma d’Oro a Cannes nel 1999 - un personaggio che in Belgio è diventato una figura quasi mitica per i lavoratori.
Nei precedenti film dei registi c’è già un po’ tutto, la loro filmografia è davvero come un’unica opera gradualmente ampliata a formare un solo grande affresco.
La solitudine (la canzoncina dell’infanzia che Tori si fa cantare da Lokita nel silenzio della notte, le cui parole in lingua etnica non venendo tradotte restano misteriose). Le molestie o le violenze sessuali che devono subire delle umili lavoratrici. Gli attori non professionisti che si mescolano a quelli professionisti fino a essere indistinguibili. Il passare da giovani uomini a giovani donne, da ragazze a ragazzi, da persone di pelle bianca autoctone a immigrate bianche dell’est Europa (Il matrimonio di Lorna, 2008, vincitore a Cannes per la miglior sceneggiatura) fino allo sfruttamento di immigrati clandestini provenienti dall’Africa messi in evidenza già in La promessa, il loro primo film importante (presentato nel 1996 a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs). Senza dimenticare il conflitto lacerante tra generazioni su visioni del mondo o etiche. I Dardenne guardano a tutti con eguale empatia, siano esseri umani di altre etnie o bianchi poveri o impoveriti. E gli sfruttatori possono essere un po’ dappertutto.
E infine non c’è mai niente di didascalico nella loro opera. Come in Tori e Lokita dove scorre con naturalezza la meccanica delle cose, e dove ogni attore restituisce con micidiale naturalezza la vita, bella o brutta che sia (di grande importanza è vederlo in lingua originale, se possibile). La dinamica umana, che suscita nello spettatore empatia verso i due protagonisti, si sovrappone poi a questa meccanica, l’una e l’altra formando il reticolo inestricabile della vita vera.
I Dardenne lavorano con finezza sui meccanismi del film noir (come già in La ragazza senza nome). Tori è il vero protagonista, davvero unico e non somiglia a nessuno, come gli dice Lokita a un dato momento. Aggiungiamo che Tori è come un topolino curioso che si intrufola dappertutto, ma anche saggio e furbissimo. Quasi il Topolino brillante detective dei fumetti: non dimentichiamo che Adolf Hitler vietò quel personaggio in Germania perché impaurito dal primo Topolino, quello di Walt Disney: sembrava un negro ma era intelligente e simpaticissimo, vispo e comunicativo. E nella canzone Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi che lui e Lokita cantano per i clienti del ristorante, si parla guarda caso di un topolino comprato per due soldi all’interno di una catena che si autodivora.
Il “carico di armi che prosciuga la ricchezza e il lavoro di tutti i popoli” si fa sentire fortemente in questo film alto sull’infanzia rubata che tenta la sua resistenza. Uscendo dalla sua visione, Tori e Lokita non ci lascia più, al pari dei suoi due protagonisti.
Francesco Boille (Internazionale, 1 dicembre 2022)