“Mutilavano braccia e gambe delle vittime, che erano consenzienti nonostante a volte finissero in sedia a rotelle, sostenendo che quelle lesioni erano la conseguenza di incidenti stradali, in modo da poter poi truffare le assicurazioni. Tra le vittime soprattutto malati e tossicodipendenti - Le vittime delle due organizzazioni erano per lo più soggetti ai margini della società: tossicodipendenti, persone con problemi mentali o dipendenti dall'alcol, soggetti in grave difficoltà economica, che attratti dalla promessa, mai mantenuta, di ricevere del denaro, davano il loro consenso a subire ogni tipo di violenza. Dalle indagini è emerso che in alcune situazioni i membri delle associazioni criminali somministravano in maniera rudimentale dosi di anestetico alle vittime, per tentare di ridurre e attenuare il dolore delle mutilazioni subite.”
Questa potrebbe essere la sinossi del film “Pietà” di K.K.Dook, Orso d’oro del 2013, ma è invece parte di una notizia di cronaca nostrana apparsa on-line l’8 agosto 2018 su TGCOM 24: storia nera e truce dei nostri giorni e non finzione come quella filmata dal regista coreano cinque anni prima, dalla quale sembra averne mutuato il misfatto, a conferma di quanto sia contemporaneo l’aforisma di O. Wilde secondo cui “la natura imita ciò che l’opera d’arte propone”.
La notizia sopra riportata, pur sconcertando, fa parte quindi della infinita narrazione nella quale ci siamo infilati sino al punto di non riconoscere il confine tra vero e falso, o per dirla con J. Baudrillard, i fatti dai suoi simulacri. Ciò che realmente accade sembra oramai aver ceduto il posto ad immagini più vere del vero (il simulacro), più seducenti e spettacolari della realtà stessa che le ha generate. E’ avvenuto veramente l’attacco aereo su Baghdad nella prima guerra del Golfo del 1991, si chiedeva a suo tempo il pensatore francese, o le immagini della contraerea irachena era una spettacolarizzazione televisiva costruita ad arte a dimostrazione di come un evento storico possa essere manipolato?
Per estensione della percezione vero/falso appena citata, ma rimanendo in ambito cinematografico, possiamo persino chiederci se la vicenda del “Canaro della Magliana”, anno 1988, resta ancora credibile perché testimoniata a suo tempo dallo stesso “torturatore” De Negri agli inquirenti o ci appare oggi più plausibile la rivisitazione nel “Dogman”(2018) di Matteo Garrone che (liberamente) ne riscrive il profilo del personaggio e il deserto umano dove matura l’omicidio? Se l’effetto manipolazione appartiene alla natura del Cinema, quanto può quest’ultimo modificare la percezione che abbiamo su verità assodate, se poi ne condividiamo il ribaltamento dal vero al falso o viceversa dove il mostro allora ci appare diverso persino simile a noi per indole e gentilezza?
Chiariamo subito che neppure in Dogman il suo protagonista è assolto né può rimanere impunito proprio perché il sangue versato (con o senza tortura) non può che estinguersi con la pena, eppure dalla visione del film avvertiamo una verità altra, sospesa, diversa da quella giornalistico-giudiziaria che già conoscevamo, una verità che appartiene al non-detto al non- pronunciabile né riconducibile alla sola narrazione del “canaro” e al suo tormentato racconto. Una verità che urlata nel buio si trasforma in eco, nel vuoto reale creato da una comunità indifferente al suo disperato richiamo.
Sono le immagini grigie del film, più eloquenti del testo, a renderci paradossalmente più chiara e vera la storia, quelle immagini capaci di intorbidire uomini e cose sin giù nel profondo del fondale marino prospiciente alla terraferma, trasformata in un unico pantano. Vivere lì, come vuole Marcello, parrucchiere per cani, cercando di “pettinare” altre vite contro-pelo è certamente impresa più ardua del rendere mansueti i molossi affidatigli, né può bastare il dono della grazia per le creature indifese, a esentarlo dall’offesa gratuita e dalla violenza bestiale che lo renderà vittima e carnefice.
Quella palude, in cui riconosciamo gran parte dell’attuale Storia italiana, obbliga non solo Marcello ma una intera comunità a rimanere in apnea e nel silenzio complice, squarciato solo dal ringhiare di uomini e cani. Quell’assordante silenzio intervallato dalle urla di Marcello al quale tornano solo echi lontani ed indistinti di una comunità altrettanto colpevole ma schiva non solo al riconoscimento del sacrificio “collettivo” ma neppure al più semplice sentimento di umana condivisione. Resta, allora, soltanto la muta solitudine scolpita sul volto dell’attore in quei lunghi minuti finali del film che restituiscono a Garrone e a tutto il cinema italiano una forza tale da poter essere riconosciuta dalla critica internazionale, quella sì capace, di rispondere favorevolmente agli echi dell’incredibile protagonista.
E di echi e di immagini, si nutre questo cinema. Voci basse che non hanno risposte e ci rimandano a diritti schiacciati o verità nascoste che solo la forza dello schermo a volte svela o anticipa, altre volte ricostruisce secondo quel “miracolo” che per Godard è il montaggio.
Diversi echi, diverse voci ascoltiamo ne “La casa sul mare” di Robert Guédiguian.
Non siamo più nel pantano di Dogman, tutt’altro, in uno scenario invidiabile, dove un gruppo familiare borghese e progressista è riunito nella vecchia casa del padre per assisterlo nella grave malattia che lo ha colpito. La malattia, però, con la quale devono fare i conti, non è solo quella dell’anziano padre, ma è un malessere più subdolo che viene da lontano e ha scavato nel profondo tutti i componenti e persino altri vecchi abitanti del borgo. Sono nodi dolorosi , frutto di perdite insanabili che il presente non riesce più a colmare, a tormentarne le esistenze. Dimenticare le cose belle dando forse un taglio netto e avere il coraggio di abbandonare definitivamente quei luoghi dove la vita è diventata impietosa, sembra l’unica risposta al destino di una comunità un tempo felice, e che ora non osa esercitare neppure la memoria di quei tempi andati.
E così mentre aleggia l’ennesima sconfitta dei singoli protagonisti e la voglia di abbandono, l’evento che riesce a mutare quell’area mortifera, si concretizza nell’improvviso arrivo di piccoli naufraghi clandestini che, invece, in quel pezzo di terra hanno trovato riparo per se stessi e il luogo dove seppellire il piccolo fratellino annegato.
Se la Casa sul Mare ideata dall’anziano padre sembrava allora aver concluso il suo percorso di costruzione di vite libere (come quelle del borgo), l’arrivo dei piccoli naufraghi restituisce a quella stessa idea una storia e una nuova vita, altrettanto meritevole di essere percorsa. Una vita nuda e coraggiosa, per questo degna, dalla quale potere ripartire, una vita- contro che ha nomi di bambini stranieri e profughi, sulle cui giovani vite però si intuisce l’ultima scommessa per restare tutti vivi.
Quelle voci all’unisono verso l’alto, a richiamo di chi non c’è più, di chi ci ha lasciato suo malgrado, è pari ad una preghiera urlata in un finale corale sempre più forte, che vuole svegliare coscienze sopite e restituire un nuovo senso a quei luoghi, a chi è rimasto, a quanti sono arrivati. Metafora di questa vecchia Europa davanti al bivio tra declino o rinascita? Forse no. Forse si.