Che Aleksandr Sokurov sia uno dei cineasti viventi più interessanti nel panorama del cinema internazionale, non è questione oggetto di discussione. Ogni suo film apre sguardi su mondi cinematografici che sembrano ancora non esplorati. Il suo cinema è in grado, quindi, di ricostruire lo sguardo dello spettatore, reinventando una dispersa magia del cinema. La capacità delle sue immagini di aprire gli occhi sugli abissi e sulla storia con una potenza visiva inusuale, diventa sempre ampia prospettiva di osservazione. Al contempo i suoi film dentro i quali ritroviamo un immaginario non replicato e non replicabile, sanno farsi indagine sui meccanismi segreti della storia, sulla dominazione come forma di espressione del potere. E il potere, a sua volta, nel cinema di Sokurov diventa gigantismo che si consuma nella sua stessa potenza, si elide in se stesso.
I suoi film più famosi da Arca russa, autoctona cavalcata dentro la storia attraverso l’arte russa nello scenario di altrettanta magnificenza che è l’Ermitage, alla trilogia sul potere (Moloch, Toro e Il sole), quasi un trattato di storia recente dentro scenari a volte anche innaturali nei quali si perdono le coordinate spazio temporali per lasciare il posto ad altre modalità di percezione del reale, hanno segnato la storia recente del cinema.
È proprio su questo profilo che il cinema di Sokurov sembra attraversare, indenne, il tempo e lo spazio. Se infatti Arca russa è il gran film che in effetti è, questo accade perché quel museo, quei saloni, quella scenografia di imponente bellezza diventa universo espanso di un’intera nazione di immensa grandezza. La macchina da presa del regista sa trasformare il grande museo in universo sconfinato dentro il quale scorre la storia. Non solo immaginario cinematografico che assume i tratti del grandioso come in un sogno felliniano, ma il grandioso in sé che solo la macchina del cinema sa percepire. Per Fellini il cinema è costruzione dell’immaginario, per Sokurov l’immaginario esiste già ed è solo il cinema che sa catturarlo. Un immaginario che il regista russo identifica con l’arte, presente non solo nel film citato, ma centrale in Francofonia, ad esempio, dove il tema della sua salvezza e dei musei che la conservano durante l’ultimo conflitto mondiale si riflette sulla nostra stessa vita: Chi saremmo senza i musei, si chiede Sokurov nel suo film che racconta, quasi in un lontano e opposto parallelo ad Arca russa, la storia attraverso le vicende del Louvre, partendo dalla preoccupazione per una nave che naviga tra acque agitate con il suo carico di storia artistica nella stiva.
È in queste stesse prospettive che trova spazio nel suo cinema l’ultima sua laboriosa fatica Fairytale, visto in anteprima all’ultima edizione del Festival Locarno e più di recente passato anche sugli schermi del Torino Film Festival. Un’altra immaginaria cavalcata su qualcosa che forse già esiste e spetta solo al cinema scovarlo, un’altra incursione sulla storia e sul potere che l’ha dominata, un’altra consumazione e sgretolamento di quel potere che sembra disfarsi in un al di là dove tutto, finalmente, diventa verità.
Fairytale è una fiaba, una fiaba nera se si vuole, un cupo racconto dantesco che lavora in quell’oltrepassato confine che è l’esistenza umana. In uno scenario animato nel quale Sokurov prende a prestito le vertiginose scenografie di Piranesi, che ha inventato lo spazio verticale per le sue carceri, in quel gotico che bene si adatta alla smisurata potenza della sua immaginazione, per inserirvi i suoi personaggi, le sagome dei suoi personaggi - lavoro sul quale bisognerà per forza tornare - Hitler, Mussolini, Stalin e Churchill oltre che un Gesù Cristo stanco e deluso e una comparsa di Napoleone redivivo tra i defunti, primo interprete nel nuovo imperialismo. Ma si serve anche dell’immaginazione di Gustave Dorè che meglio di altri ha dato forma e tratto alle atmosfere infernali e son soltanto del poema dantesco. Disegni nei quali la grandiosità di paesaggi non terreni sembrava rimpicciolire le figure umane schiacciate dalle rupi e dalle acque infinite. In questo al di là dominato da Piranesi e da Dorè, in un costante dialogo tra scenario e storia, tra vita e morte, le quattro figure di ex potenti, ancora illusi di un loro dominio sulle folle festanti, sono viste ridotte alla loro essenza di piccoli uomini alle prese con giochini infantili, battute acide dell’uno contro l’altro, dominati da un ambiente che non è più terreno ed è già altra consistenza della prosecuzione della vita. Dominato da una costante ironia Fairytale smette da subito le vesti del film d’animazione, come viene innaturalmente e maldestramente definito, quasi un giochino minimo - e la sua uscita natalizia sembra avvalorare questa cattiva gestione del film - per diventare, invece, ulteriore lugubre riflessione sulla storia, soprattutto sulla storia di quella potenza che i tre dittatori, protagonisti e il leader inglese, hanno consapevolmente incarnato, per trovarsi ora, ridotti a sagome fluttuanti, nell’immaginario limbo che li accoglie dopo tanto spargimento di autocratica potenza.
Fairytale nel suo aspetto fiabesco è dunque sberleffo alla potenza e cupa riflessione sulla dittatura e al contempo durissimo giudizio storico che si aggiunge agli inappellabili giudizi che il suo cinema ci ha offerto sul tema. Le atmosfere dantesche in quella insuperabile immaginazione sospesa tra la nebbia di un invisibile mondo e la materialità eterea delle figure, sembra che davvero rivivano preparando forse quel film che Aleksandr Sokurov insegue da tempo e che potrebbe costituire, su queste premesse, davvero l’apogeo del suo cinema, quella Divina Commedia di cui questo film costato tre anni di duro lavoro, sembra anticiparne i tratti, cominciando a far vivere le atmosfere.
Qualche parola va spesa per questo lavoro così faticoso e difficile per giungere al risultato che si spera siano in molti a potere valutare. Sono state centinaia le ore di materiali girati su Mussolini, Hitler, Stalin e Churchill che il regista ha visionato, ore e ore di proiezioni dalle quali con cura e pazienza sono state isolate le sequenze lunghe o brevi che sarebbero servite al film. Sono state letteralmente estratte da quei filmati originali, si direbbe ritagliate, staccate e così ottenute riversate in Farytale. Un lavoro di adattamento dei movimenti dei soggetti di quelle sequenze ha completato la paziente opera di traslazione per conferire al movimento, così estrapolato dall’originale, una logica nuova all’interno del film.
Un altro complesso lavoro è stato quello del doppiaggio delle quattro figure dei protagonisti. Ciascuno di loro è stato doppiato nella propria lingua di appartenenza, compreso Gesù in quell’antico aramaico oggi quasi introvabile ed è stata dura la ricerca di un doppiatore in grado di sostenere la sfida. I nuovi dialoghi, frutto della scrittura del film e detti dai doppiatori, sono carichi di un’acida ironia in cui risaltano i tratti quasi puerili dei quattro personaggi storici. I sorrisi ai quali Fairytale induce sono di fatto una riflessione sulla dimensione che Sokurov attribuisce al potere e ai suoi interpreti.
Un lavoro che non è soltanto tecnica supportata dalla tecnologia, ma anche un’operazione che la dice lunga sulla grande visione della storia del geniale regista russo. Una storia che è contemporaneità, che è trasporto in questa nostra vicenda dell’oggi, una storia del potere che non è mai morta, che attende viva, sebbene sgretolata in un limbo. Una memoria che non può spegnersi per un cinema di immensa grandezza che non smette mai, con i grandi, di riscoprire se stesso e le sue potenti armi dell’immagi(nazio)ne.
Tonino De Pace
-------------------------------------------
LUCE, VITA, CINEMA -
Cosa vediamo quando guardiamo il cielo? Vediamo la luce, è evidente. Ed è alla luce che aspira Alexandre Koberidze in questa sua magnifica opera seconda: What do we see when we look at the sky? È il film della trasparenza, l’ode alla flagranza del cinema rispetto all’esistere, la posa in opera di una libertà che fluttua nello spazio filmico costruito con straordinario istinto da questo regista georgiano, al quale già si doveva un folgorante esordio, Let the summer never come again. Koberidze trova i suoi film nella relazione con uno spazio filmico che arriva immediato, in pura e semplice risonanza con la sonorità della vita, ma è in realtà frutto di una composizione figurativa costante, precisa tanto nel comporre lo sguardo quanto nel lasciarsi distrarre dall’eventualità dell’esistere. Il Cinema è il vero corpo in scena nei suoi film e questa sua opera seconda ne è la conferma, elaborata com’è nella semplice potenza visiva trovata nel gioco di luci ed ombre, nella gradualità dei piani e dei campi, nell’approccio immediato alla contemplazione della vita che scorre per le strade di Kutaisi, 200 chilometri a ovest di Tblisi.
È qui che la fiaba raccontata da Koberidze prende forma, una storia d’amore negato per il malevolo influsso di un incantesimo, al quale solo il Cinema, in nome della sua purezza, può opporre resistenza. Ci sono infatti Lisa e Giorgi che, in un incipit in punta di piedi, si scontrano e si innamorano. Quando si ritrovano si danno appuntamento per la sera del giorno dopo in un bar lungo il fiume Rioni, ma il loro amore è oggetto di uno sguardo malevolo che lancia su di loro un terribile incantesimo: andranno a dormire e il giorno dopo si risveglieranno con un volto diverso e senza i talenti (la medicina per lei, il calcio per lui) che li definiscono… Così accade, infatti, e i due innamorati si perdono, anche se il destino li fa lavorare uno ad un passo dall’altra e il Cinema li tiene insieme, abbracciati dallo sguardo di Koberidze che, da buon georgiano, si diverte a ironizzare sul mondo e sull’amarezza del loro destino. E allora il film disperde segnali di vita nei cortili e nelle strade, si lascia distrarre dalle foglie che volano, da ragazzini che giocano a palla, dalle storie di quattro cani randagi, amici di vecchia data, che percorrono la città in cerca di un bar dove seguire le partite dei mondiali. La struttura del film si spinge così per l’intera durata dei suoi lievissimi 150 minuti in un flusso che si abbandona alla distrazione per focalizzare il suo vero soggetto: la vita che si offre al Cinema come struttura semantica. A cui corrisponde l’idea di un filmare che struttura la vita nella composizione di una narrazione semplice, immediata, libera.
Koberidze lo dice chiaramente nel finale: il suo è un cinema che trova le storie nell’esistente e che si affida all’accadere per puro principio vitale. La drammaturgia è un’ipotesi che si innesca laddove c’è bisogno di una narrazione per esprimere la flagranza della luce, la presenza del vento, il vociare per strada. Ciò che poi fa il miracolo è la capacità di questo regista di cogliere il rapporto tra l’esistere e il filmare, sicché i suoi film pure così semplici e vitali, sono in realtà dei sistemi estremamente precisi e filmicamente funzionali. Come dimostrava già il suo esordio, girato addirittura nella bassissima definizione di un telefonino di vecchia generazione, ma non per questo privo della medesima grazia compositiva che appartiene ora alle immagini più limpide, quasi lustrali, Cosa vediamo quando guardiamo il cielo?. Un film come questo è un miracolo che declama la vitalità del Cinema, qualcosa che tiene insieme la purezza ideale di Bresson, la ragione narrativa di Rohmer e l’ironia filosofica di Iosseliani. Un capolavoro che si offre con la stessa assoluta libertà dei film di Lav Diaz o la medesima potenza d’astrazione del Mariano Llinas di La Flor…
di Massimo Causo [Duels, 25 giugno 2021]
Dal titolo certamente non ermetico, il secondo lungometraggio di Alexandre Koberidze è una fusione di generi, stili e forme, che accompagna delicatamente lo spettatore per quasi due ore, con coerenza ed equilibrio, confermando che il suo è un cinema che affonda nell’esistente (nel “Dasein” - nell’Esserci - per dirla alla Heidegger), che si affida all’“accadere” per puro principio vitale, e tale fiducia negli eventi si disvela anche in questa trama.
La studentessa in medicina nonché commessa di farmacia “Lisa” (interpretata dalla attrice non professionista Oliko Barbakadze) si scontra per strada con un ragazzo di nome Giorgi, che fa il calciatore (interpretato dal campione di braccio di ferro Giorgi Ambroladze), facendo cadere il suo libro, che lui raccoglie. In seguito, sempre nella medesima giornata, i due si rincontrano e decidono di uscire insieme la sera successiva. Tuttavia, accade che i due ragazzi cadano vittima di un “malocchio”, circostanza che ci viene descritta dalla voce narrante. Stando alla maledizione, il giorno successivo i due ragazzi si sveglieranno con un aspetto completamente diverso, senza più le loro qualità, quindi, non saranno mai più in grado di ritrovarsi. Infatti, Lisa (che adesso è mutata ed è interpretata dalla giovane Ani Karseladze) e Giorgi (anch’egli mutato e interpretato dal talentuoso Giorgi Bochorishvili) si svegliano come persone diverse. Entrambi sono scioccati, ma non hanno molto tempo per disperare della nuova e assurda situazione, perché la vita li pone repentinamente a fare i conti con le loro mutate fattezze. Inizia Lisa che, non potendo più lavorare in farmacia, trova lavoro come cameriera in un bar di proprietà di un simpatico vecchietto (l’attore Vakhtang Panchulidze). Successivamente, è Giorgi che, non riuscendo più a calciare adeguatamente un pallone per guadagnarsi da vivere, viene “accidentalmente” assunto dallo stesso uomo proprietario del bar di Lisa, tuttavia, adibito ad un’altra mansione. A questo punto, per quanto si possa essere tentati già a vedere questa fiaba finire felicemente, inizia invece un altro filone della storia, ove i protagonisti sono una troupe cinematografica, un regista, un direttore della fotografia e un fotografo, impegnati in un film in 16 mm, per il quale cercano coppie prese dalla vita reale da intervistare. Ma sia Lisa, che Giorgi, a questo punto della storia, non hanno avuto il ben che minimo contatto. Nella favola, successivamente, giunge il momento dei mondiali di calcio e tutta la Georgia li guarderà, incluso Giorgi, tifosissimo dell’Argentina e alcuni di cani randagi. Questa ultima circostanza rappresenta uno dei tanti meta-tocchi del film, in cui la voce narrante descrive quale cane farà il tifo e per quale squadra, tanto da ingenerare l’impressione di un documentario contestualizzato nella storia. Ma proprio alla fine dei mondiali, ed alla fine delle riprese del film, i due innamorati che si erano persi, anche se il destino li ha fatti lavorare uno ad un passo dall’altra per quasi tutto il tempo, si ritrovano grazie alla “verità” del Cinema.
L’opera denota un approccio registico che attinge elementi dai film muti, dal cinema degli anni ‘70 in senso lato, dal documentario osservativo e si potrebbe continuare ancora per molto nella elencazione tentando di descrivere tutte le contaminazioni presenti nella medesima.
Tuttavia, nonostante la ricchezza di ingredienti poetici e metaforici, il prodotto finale di Koberidze risulta essere un film caldo, coerente e romantico, quasi un elogio alla mitezza ed alla normalità.
Nel lungometraggio è presente anche un altro protagonista, che pare anch’esso essere mutuato dall’altro concetto caro alla filosofia heideggeriana: il tempo. Per quanto qualche elemento possa fare ricollegare la storia ad una epoca precisa, le informazioni fornite nel film non sono decisive nel risolvere i dubbi che via via sorgono nello spettatore, fra tutte quella che si evince dal nome della città in cui è girato il film, Kutaisi, effettivamente capitale della Georgia, ma di circa 900 anni fa, circostanza che concorre a farci oscillare tra realtà e fantasia.
Il risultato, in definitiva, è quello di un piccolo gioiello, cui hanno contribuito sia il lavoro di macchina da presa del DoP iraniano Faraz Fesharaki (un mix di digitale e 16 mm), sia il montaggio amorevole, giocoso e sicuro di Koberidze, cui va aggiunta la colonna sonora, elaborata e dai molti spunti originali, realizzata dal fratello del regista Giorgi Koberidze, tanto da ritenerla in tutto e per tutto una protagonista dell’opera.
Domenico Labboccetta
--------------------------------------
Riempire l’intaglio vuoto del puzzle in One second -
Zhang Yimou ama la Cina e dopo i fasti del wuxpian in cui l’idea di spettacolo era connessa a quella di una narrazione eroica, sullo scenario di un mito tra combattenti volanti e duelli infiniti, lo scomodo regista torna ad una storia che ridisegna un differente profilo del Paese e la sua macchina da presa guarda la Cina con un altro occhio, quello di una dissidenza ragionata, con l’intenzione di raccontarla attraverso un realismo viscerale, ma anche con una benevolenza quasi da neorealismo zavattiniano. Una storia divisa tra umorismo e dramma collettivo, che si stempera e diluisce nell’infinita bellezza degli immensi scenari naturali, nelle dune disegnate dal vento e dalla corona delle catene montuose, fondale eterno a quello sguardo che al confronto balena in un lampo. In questo paesaggio ceruleo e sabbioso Zhang Yimou demolisce il mito della Cina eroica, negli abiti poverissimi dei suoi personaggi, in quelle strade polverose del deserto. One second è una storia quasi invisibile, abitata da personaggi invisibili, che solo la sua macchina da presa poteva cogliere. Un film che perpetua il tempo utilizzando la pellicola come dispositivo della memoria, come sostitutivo dell’immaginazione.
Zhang Jiusheng è riuscito a fuggire da un campo di rieducazione. Non vede la famiglia da molti anni e soprattutto sua figlia. Si imbatte in una ragazzina che ruba un rullo di una pellicola da un trasportatore. La insegue, tra scontri ed equivoci, tra piccoli drammi e racconti familiari, tra attrazioni e respingimenti tra i due si arriverà a capire che Zhang Jiusheng sta cercando di vedere al cinema il Cinegiornale n. 22 nel quale, qualcuno gli ha scritto, compare anche sua figlia. Nel villaggio dove è finito proietteranno proprio quel cinegiornale. Se ne occupa come sempre Mr. Cinema, una specie di boss culturale che tiene in pugno i suoi compaesani affamati di cinema. Zhang Jiusheng sembrerà finire male, ma una piccola reliquia di celluloide con i due fotogrammi che riprendono la figlia potrebbero alleviare le sue sofferenze.
Zhang Yimou ha lavorato per raffinare il suo cinema e lo dimostra con questo film già pronto da tempo, che avrebbe dovuto essere in corsa alla Berlinale 2019. Venne misteriosamente ritirato dalla competizione e scomparve per due anni. è riapparso alla Festa del Cinema di Roma 2021, arrivando poi nelle sale italiane con un doppiaggio al limite del sopportabile (ci si domanda quando i distributori italiani capiranno che il pubblico è sufficientemente alfabetizzato per vedere un film con i sottotitoli).
One second diventa una riflessione sul regime cinese con un occhio benevolo, che però non tace di quella violenza del sistema che la storia ci ha raccontato e che il regista sa arricchire di quella componente quotidiana e popolare che fa crescere il disagio e fa comprendere i riti censori che hanno accompagnato il film.
Ma forse la partita che il film vuole giocare è quella trasversale riflessione sul tempo del cinema e della sua percezione. Nella piccola sala rurale si proietta finalmente e in esclusiva per Zhang Jiusheng il cinegiornale con l’immagine fuggevole della figlia quattordicenne. Zhang Jiusheng la guarda per cento volte, in un anello infinito di passaggi che colmano il vuoto della vita mancante, del pezzo assente. Il cinema sa essere surrogato nobile di un’esistenza negata o lontana. Zhang Yimou va ancora più a fondo e interiorizza il tema della memoria e della sua materialità. L’oggetto, la pellicola, Heroic Sons and Daughters il film di Wu Zhaodi del 1964 pezzo forte del cartellone, diventa il riflesso della storia del protagonista che cerca la figlia, in un rispecchiamento quasi da estasi e il fotogramma del cinegiornale, con l’iconica immagine della figlia, si fa peso specifico della memoria materiale, simulacro del ricordo, tassello dell’intaglio vuoto del puzzle della vita di Zhang Jiusheng. La materialità dell’oggetto e la materialità del ricordo e l’immagine che diventa soggetto sostitutivo.
È così che nel film si moltiplicano e si intrecciano i temi cui fa da collante quello ulteriore della impraticabile paternità, che getta la sua luce, come accade sempre, sulla cattiva o mancata paternità di uno Stato-Paese verso i suoi cittadini. Zhang Yimou indaga con sapiente circospezione sull’argomento, iniettando nel rapporto apparentemente antagonista tra i due protagonisti un umorismo sottile e bonario, ma raccontando al contempo la necessità e l’ennesimo vuoto della figura paterna.
One second è racconto densissimo di piste occulte e narra la consistenza della materialità di un cinema scomparso che si oppone alla fragilità di quello, oggi, smaterializzato. Un cinema digitale che non è vero che eternizzi la memoria, quanto piuttosto smette di diventare oggetto di culto o segreta trasparenza di una perduta rappresentazione.
Temi sovrapposti e raccordati in una storia nella quale si alternano divertimento e dramma, assetto sociale e rudimentale, ma invincibile, passione per il cinema, malinconia e rivalsa, memoria e presente.
Zhang Yimou apre scenari insospettabili e apre un nuovo corso al suo lavoro di regia in cui, ottimizzando il rapporto tra forma e contenuto, recupera anche il desiderio di cinema che vuole tornare a immergere la sua macchina da presa dentro le storie popolari, dentro una morale universale sulle tracce di un novello Zavattini, in cui la pellicola rubata diventa suppletivo controcanto della biciletta rubata.
Zhang Yimou torna ai suoi personaggi, alle sue Qiu Ju di La storia di Qiu Ju, Wei Minzhi di Non uno di meno, ai racconti più intimi e personali, distante da ogni immediata spettacolarità del cappa e spada cinese, ricco di segni umani laddove il cinema svolge il suo ruolo di costruzione di un insostituibile immaginario, cogliendo il frame in cui la vita della pellicola si sostituisce a quella reale, in una eternità che dura protetta dalla sabbia del tempo.
Zhangh Yimou
Visti davanti, visti da dietro -
Rolando Iaria
DI MEMORIE E DI TEMPESTE - La filmografia di Kore'eda Hirokazu -
Il cinema di Kore'eda Hirokazu è un tentativo di ripensare il tema del legame, gettando uno sguardo “umano troppo umano” sull’imprevedibilità delle relazioni umane, sull’eccentricità delle costellazioni familiari, sulla memoria come nucleo enigmatico dell’identità personale.
Ho detto di un surplus di umanità, perché lo sguardo di Kore'eda è caratterizzato da una sorta di intimismo dell’esteriorità, da uno scandaglio dell’animo umano nell’intrecciarsi degli incontri e delle separazioni; spesso si tratta di esistenze ai margini – come in Dare mo shiranai o nell’acclamato Un affare di famiglia –, talvolta di esistenze deragliate – si pensi al seminale Maboroshi no hikari o al doloroso Ritratto di famiglia con tempesta –, o persino di esistenze al di là della vita terrena – le anime nel limbo di Wonderful Life.
L’opera di Kore'eda utilizza differenti messe a fuoco per osservare il vissuto dei propri personaggi, privilegiando, per così dire, le “coscienze infelici”, alle prese con il difficile compito di dare un senso alle proprie vite incrinate. Ciò appare evidente fin dal lungometraggio di esordio, Maboroshi no hikari (1995), storia di una difficile elaborazione del lutto, per la persistenza della presenza (fantasmatica) nella vita della protagonista Yumiko del marito, morto in circostanze misteriose.
Se il ricordo della morte può “infestare” la vita, lo stesso ricordo, per Kore'eda, può di converso tenere in vita oltre la morte, come dimostra Wonderful Life (1998, anche noto all’estero come After Life): in una sorta di limbo, le anime dei defunti, aiutate da alcune guide soprannaturali, devono scegliere il proprio ricordo più prezioso per portarlo con sé nell’aldilà, come fosse un cortometraggio da rivedere all’infinito. In un’atmosfera onirica e rarefatta, Wonderful Life mette in evidenza la difficoltà di ritagliare dalla propria vita un istante di pura gioia, qualcosa da conservare per l’eternità.
Kore'eda, erede anche visivamente di una genealogia che include Ozu Yasujirō e Mizoguchi Kenji, non si sottrae da una rappresentazione, allo stesso tempo inquieta e contemplativa, delle contraddizioni della società giapponese: se Distance (2001) esprime la necessità di fare i conti con l’attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995 ad opera della setta Aum Shinrikyo – raccontato da Murakami Haruki in Underground –, Kūki ningyō (2009, titolo internazionale Air Doll) esplora il topos della bambola animata, proprio della tradizione giapponese, così come le dinamiche di un eros alienato e della distanza interpersonale nella realtà metropolitana del Sol levante. In entrambi i casi, il filtro cinematografico mostra un tratto, per così dire, spirituale, perché in Distance il tema è quello della connessione tra sopravvissuti e morti, in Air Doll quello del “burattino senza fili” alla vana ricerca di calore umano.
È tuttavia nel tratteggiare le costellazioni familiari che Kore'eda mette in scena psicodrammi e commedie umane con un realismo che vorrei definire “poetico”. Non perché Kore'eda indulga al lirismo, né nei mezzi espressivi né nella sceneggiatura, ma piuttosto per la sua capacità di creare atmosfere emozionali attorno alla fragilità inemendabile dei rapporti umani.
È il caso di Aruitemo, aruitemo (2008, titolo internazionale Still Walking), esplorazione delle fratture interne di una famiglia, che si rivelano nel momento in cui una coppia di pensionati si ricongiunge coi figli in occasione dell’anniversario della morte del figlio maggiore. In Still Walking, si continua, appunto, a camminare, mentre la vita dipana incomprensioni e rimpianti.
È la stessa crisi insanabile che attraversa Umi yori mo mada fukaku (2016, titolato in Italia Ritratto di famiglia con tempesta), che vede i protagonisti costretti ad andare avanti al di là del naufragio di una storia: Ryota Shinoda può solo provare a trovare un modo per fallire meglio, nel lavoro, nell’amore, nell’arte, come padre.
Di fronte al collasso delle strutture familiari e relazionali, gli esseri umani provano ad attrezzarsi per continuare a vivere. È quello che sono obbligati a fare, in Dare mo shiranai (2004, titolo internazionale Nobody knows), i quattro figli piccoli di una madre che li ha abbandonati per inseguire l’uomo di cui è innamorata.
È chiaro che per Kore'eda la famiglia non è un fatto naturale, ma elettivo: è un crocevia di affetti e di scelte. In Umimachi Diary (2015, titolo internazionale Little Sister, tratto dal manga omonimo di Yoshida Akimi), ambientato nella splendida cittadina di Kamakura, tre sorelle accolgono nella loro vita la sorellastra adolescente Suzu, figlia del padre che le aveva abbandonate 15 anni prima per iniziare una nuova convivenza.
In Soshite Chichi ni Naru (2013, uscito nelle sale italiane come Father and son, Premio della Giuria al Festival di Cannes), due famiglie si trovano confrontate con una scelta difficile, a seguito di uno scambio di figli avvenuto alla nascita e venuto a galla dopo sei anni. Si tratta di dover scegliere se tenere il bambino che hanno cresciuto o riprendere con sé il figlio biologico. Dopo lunghe riflessioni e turbamenti, il legame affettivo prevarrà su quello genetico.
La consacrazione definitiva di Kore'eda, confermata dalla Palma d’Oro a Cannes, arriva con Manbiki kazoku (2018, titolo italiano Un affare di famiglia), in cui un gruppo familiare atipico non è tenuto insieme da vincoli di sangue ma dalla condivisione di un destino segnato dall’arte di arrangiarsi. È il magnifico ritratto di una famiglia improbabile e sgangherata, che vivrà di espedienti finché le sarà possibile.
Tuttavia, l’opera di Kore'eda resta incredibilmente variegata, come dimostrato da La Vérité (2019, giunto in Italia come Le verità), in cui il “quadretto familiare” è composto da una diva del cinema francese (interpretata da Catherine Deneuve) con la figlia sceneggiatrice, il genero attore e la nipotina. Il dramma dei rapporti interpersonali è qui inserito in quello che è anche un film sul cinema, con riferimenti anche stilistici alla Nouvelle Vague.
La vocazione internazionale di Kore'eda trova conferma nel suo ultimo lavoro, Broker (2022, al cui titolo originale è stato aggiunto in Italia Le buone stelle), primo film del regista in lingua coreana. Ancora una volta la storia di un legame atipico, tra un “broker” di buone azioni, il suo socio e un bebè abbandonato.
La miniera già ricchissima del cinema di Kore'eda continua a portare alla luce straordinari affreschi attorno all’imprevedibilità, densa di amore e dolore, del farsi, disfarsi e rifarsi delle relazioni umane.
Fabio Domenico Palumbo
Tra disagio e quotidianità -
Un interessante sguardo sul mondo della scuola lo ha gettato, pur in piena chiusura scolastica durante la pandemia, l’inosservato, ma meritevole, Marco Polo, un anno tra i banchi di scuola di Duccio Chiarini. Un’operazione di qualità che nella sua originale e compiuta forma esteriore, resta pregevole per le premesse e le conclusioni alle quali giunge. Un film che, scansando luoghi comuni sul mondo scolastico, sa lavorare con intelligenza sul progressivo e interattivo (tra allievi e docenti) crearsi della formazione scolastica.
Quanto al resto, in tema di convivenza scolastica e strutturazione dell’insegnamento, viene in mente, senza andare troppo indietro nel tempo, almeno La classe di Laurent Cantet che aggredisce il tema della convivenza tra l’insegnante e suoi indisciplinati alunni.
L’anno che verrà continua, quindi, nel solco già da altri tracciato, e si inserisce con autorevole piglio nel tema dell’istituzione scolastica. Lo fa con una sua propria personalità, con un taglio e un registro altrettanto originale, avvalendosi di un cast di qualità, nonostante si tratti di giovani attori non professionisti, ma reclutati dall’occhio attento del responsabile del casting. Si tratta di giovani che provengono dallo stesso quartiere dentro il quale si svolge il racconto, sapendo assorbire da quell’ambiente ogni utile suggestione che diventa pietra angolare del film.
Diciamo subito che L’anno che verrà, possibile traduzione del più aderente La vie scolaire, per l’ampiezza ancora più comprensiva che presuppone, sa essere piacevole e perfino divertente, nonostante i temi trattati siano drammatici, a volte tragici e comunque raccontino del costante disagio della gioventù della immediata banlieue parigina come è quella di Saint Denise. È qui che si svolge la storia e dove la troupe ha trovato la disponibilità di una vivace e innovativa dirigente scolastica che ha accolto con favore la richiesta di utilizzo della scuola.
Un film corale che inizia al principio dell’anno scolastico e si chiude con l’inizio delle vacanze estive. Nella scuola è arrivata la nuova e giovane insegnante che coprirà il ruolo di Vicepreside. La scuola ha le classi cosiddette NOP nelle quali, come in una specie di sostegno, si intensificano alcuni insegnamenti al fine del recupero degli allievi più disagiati, anche di quelli che soffrono del divario economico con i loro compagni. Samia la giovane Vicepreside arriva dall’Ardèche e scopriremo che ha anche altre ragioni per lavorare a Saint Denise. Il suo lavoro è quello di fare da tutor ai ragazzi instaurando, ove occorra, un legame con le famiglie. Ma in particolare la giovane Samia tiene d’occhio Yanis.
È proprio Yanis, interpretato dal giovanissimo ed espressivo Liam Pierron, il personaggio attorno al quale la storia, le storie, prendono forma e si consolidano. Yanis è un personaggio dalle molte affinità biografiche con Mehdi Idir, uno dei due registi ed è in questo microcosmo da periferia, a trenta minuti da Parigi con i mezzi pubblici, in un luogo in cui i ragazzi, in maggioranza di origine algerina e maghrebina in generale, vivono le loro giornate tra piccolo spaccio e immaginati progetti sul futuro. È in questa specie di artefatto e credibile realismo, spezzato da un ritmo mai interrotto che L’anno che verrà sa mostrare le sue potenzialità, la sua insospettabile introspezione in quel mondo che appare appena fotografato e che invece percepiamo nella sua integrità. È una specie di manifesta autenticità di ciò che si guarda a dare vita a quella linfa benefica che scorre nelle immagini e cattura l’attenzione anche dello spettatore più scettico. Idir e Grand Corps Malad - dietro il quale si cela Fabien Marsaud che ha acquisito questo pseudonimo a causa di un incidente che ha ridotto la sua mobilità - nella scrittura e nel lavoro sul set hanno saputo coltivare questa originalità quasi esclusiva, anche con la rilettura di tracce autobiografiche, conferendo al film quel taglio lieve pur dentro un’ambientazione in cui si sente il tema del disagio dal quale nascono le microstorie di cui è costellato.
È in questo ambiente che cresce e vive Yanis, turbolento, anche provocatore e maleducato nei confronti del suo (antipatico) professore. Ma è nel privato, soprattutto con il suo amico Fodé, che Yanis sa mostrare il suo vero carattere, il suo rapporto con le cose, la coscienza dei propri limiti, le difficoltà e lo scetticismo per un futuro legato al cinema. Yanis si fa protagonista di uno spaccato commovente nel quale il suo doppio atteggiarsi, tra l’immagine pubblica e quella privata, si evidenzia e l’immagine sa percepire il vero nella vitalità di quella spontanea emozione. Yanis mostra il suo volto e la sua esperienza sa diventare vademecum interpretativo del comportamento giovanile. Un’autocritica che raggiungerà il culmine nel finale del film e tutti questi comportamenti faranno ricordare quelli di Antoine Doinel. Anche Yanis fa il suo diavolo a quattro nella scuola e rischierà l’espulsione, ma il suo angelo custode, l’attenta Samia, e la sua naturale inclinazione ad una verità dalla quale non si può prescindere, veglieranno su di lui.
L’anno che verrà sa essere il film dei fatti quotidiani e nella sua ostentata e vera leggerezza, senza pretese sociologiche o interpretative dei fenomeni sociali, sa farsi portavoce di quel disagio che risiede nell’assenza di prospettive che, purtroppo, riguarda anche il mondo degli adulti. Il racconto di Grand Corps Malad e Idir smette mette di essere, o meglio non è soltanto, un film sul mondo della scuola, pur mantenendone tutte le caratteristiche, per diventare qualcosa di più ampio, un tentativo di guardare ai rapporti familiari di questi ragazzi, in particolare con i genitori in relazione alla scuola, ad esempio. Un rapporto che Samia sa costruire, nel rispetto, ancora una volta, di quell’equilibrio, indispensabile, tra esigenze dell’istituzione scolastica e ambiente sociale e culturale di riferimento. È l’attuazione fruttuosa del suo progetto che vede coinvolte costantemente le famiglie nella gestione degli indisciplinati comportamenti dei ragazzi, delle loro turbolenze che diventano così terreno comune di intervento, tra famiglia e scuola.
In questa insistita quotidianità, è forse proprio la gestione del mondo scolastico a diventare centrale, in quell’ottica di preparazione alla vita che il percorso didattico, interamente considerato, dovrebbe essere. Non a caso, i due registi, come essi stessi dichiarano, hanno scelto di raccontare il periodo scolastico e di vita corrispondente alle scuole medie. Sono quelli gli anni in cui la formazione dei ragazzi è più urgente e per converso, anche più difficile e sottoposta, come avviene sempre, alle numerose e insidiose sollecitazioni. È in questa ottica che il film sembra svolgere il suo ruolo con egregi esiti, in quel veritiero rapporto umano che soprattutto Samia e il professore Messaoud (Soufiane Guerrab), sanno instaurare con i ragazzi e nel loro, mai trascurato, né affievolito, tentativo di patteggiare e contemperare le esigenze della scuola con l’istintivo rifiuto dell’attenzione per insegnamenti che i ragazzi reputano distanti dalle loro reali esigenze che sono soprattutto economiche. Comprendere a fondo questa frattura è arrivare alla radice del malessere, non sarà forse utile a guarirlo, ma aiuterà ad aprire una prospettiva di sguardo differente in questi giovani così marginali rispetto all’impero, ma così vicini ai suoi nocivi effetti.
È su queste riflessioni che ci si accorge, al di là della sua piacevole visione, di quanto L’anno che verrà centri il tema di questi difficili rapporti, di come sappia tenere in straordinario equilibrio tutti questi profili, insistendo con leggerezza sul tema dell’interazione con l’articolato mondo dei ragazzi ai fini di un migliore funzionamento del sistema scolastico, soprattutto nelle aree più difficili, come le tante Saint Denise dei nostri luoghi.
È un comune sentire di cui L’anno che verrà, insieme al citato Marco Polo, un anno tra i banchi di scuola, sanno farsi cinematografica ed efficace manifestazione che forse Ministri, Dirigenti, Responsabili a vario titolo, allievi e genitori, dovrebbero vedere per ricostruire, su queste prospettive, il tessuto connettivo di un sistema di istruzione che sia adeguato ai tempi e alle esigenze per tutti gli attori e i protagonisti dell’ampio scenario.
di Tonino De Pace (sentieriselvaggi.it – 7 ottobre 2020)
I film di Kore'eda abbracciano il mistero della vita e ci incoraggiano a
pensare al motivo per cui siamo qui e cosa ci rende veramente felici.
Roger Ebert
Dopo la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2019 e il grande successo di pubblico di Affari di famiglia (visto nell’ultima rassegna del Circolo Zavattini), il regista giapponese si concede un’incursione nel cinema francese con La vérité e questa incursione nel cinema coreano. Ma con sostanziale coerenza Kore'eda dà continuità alla propria poetica.
Dal punto di vista estetico, senza concessioni ai volti più noti del cinema occidentale (Deneuve, Binoche, Hawke) e di quello sudcoreano: Bae Doo-na (attrice e modella nota a livello internazionale per i ruoli in Mr. Vendetta di Park Chan-wook, The Host di Bong Joon-ho, Cloud Atlas di Lana e Lilly Wachowski), e Song Kang-ho (protagonista in A taxi driver di Hun Chang e del premio Oscar 2019 Parasite di Bong Joon-ho) che per Broker, in Concorso al Festival di Cannes 2022, ha ottenuto il Premio per la Migliore Interpretazione Maschile.
Dal punto di vista narrativo, regalandoci un’ulteriore possibilità di indagine sull’infinita galassia delle costellazioni familiari.
Sì perché Broker inizia come un poliziesco, continua come un road movie, finisce come una commedia gentile.
Ma nella complessità della trama non rinuncia alla semplicità cristallina, ad una essenzialità che non contraddice mai la profondità dello sguardo, la ricerca di quel particolare, di quell’istante che irrompe nel quotidiano per romperne gli equilibri, per cambiare le sensibilità e i modi di guardare la vita.
In realtà, infatti, Broken è solamente, profondamente, empaticamente un’indagine sui sentimenti, sui desideri, sui traumi, sui vuoti e sulle assenze, sulle contraddizioni di personaggi che troveranno possibile soluzione solo nell’ascolto, nell’accoglimento, nel rispecchiamento reciproco. Solo nella possibilità di farsi “comunità”, di intercettare quei possibili legami, spesso inimmaginabili o improbabili, che possano ridisegnare le linee invisibili che tracciano le costellazioni.
Quelli che Kore'eda ci suggerisce nei suoi film sulla decostruzione della famiglia (Nessuno lo sa, Aruitemo aruitemo, Father and son, Little Sister, Ritratto di famiglia con tempesta, Un affare di famiglia, La Vérité) sono sempre sentimenti che se nascono dai legami di sangue hanno la necessità di un elemento catalizzatore, spesso legato alla memoria, al passato o a un evento straordinario e sovvertitore. Ma più spesso sono assolutamente “irregolari”, da ricercare nelle fratture della vita, nella casualità degli eventi, nella quotidianità e al contempo nella capacità di aprirsi a tutto ciò e agli altri.
Anche in Broker (Le buone stelle nel titolo italiano) il confine tra legalità, solidarietà, consanguineità, genitorialità e i loro opposti è molto labile. Ma anche qui essere capaci di superare il limite apre prospettive di vita e di speranza.
Tutto inizia dall’abbandono di un neonato in una “baby box”, “ruote degli esposti”, “culle per la vita” nelle quali negli ultimi anni in Corea del Sud vengono lasciati sempre più bambini insieme a lettere con storie strazianti. Ma So-young, la giovane madre in difficoltà, ci ripensa e si affida ad altre due vite disperate Sang-hyun e Dong-soo, che gestiscono un’attività clandestina di contrabbando di bambini. Inizia così un complicato e sgangherato viaggio di un disparato gruppo improvvisato, che metterà in gioco il concetto stesso di famiglia, alla ricerca dei genitori giusti, dei migliori offerenti, di una soluzione per un bambino, ma che diventerà anche la propria possibile occasione di salvezza, per saldare quel debito o credito nei confronti della genitorialità e dell’abbandono, per perdonarsi ed andare avanti. Per dare vita ad una famiglia allargata, sfidando l’idea dominante nella nostra società, con una possibilità che tale può essere solo superando i legami tradizionali.
Anche qui un elemento catalizzatore - un ragazzino intrufolatosi di nascosto nel furgone aggregandosi al gruppo - apparentemente insignificante sul piano narrativo, costringerà ognuno di loro a confrontarsi con la propria infanzia e a fare i conti con la necessità di diventare adulti.
La profondità dello sguardo di Kore'eda ci porta ad empatizzare con i suoi personaggi senza mai giudicarli. Ne ricerca la dimensione umana anche quando violano la legge, abbandonano il proprio bambino, sono costretti ad applicare leggi a volte ingiuste, ma sono personaggi tutt’altro che disumani, disponibili a una presa di coscienza e a evoluzioni psicologiche e sentimentali verso gli altri.
Kore'eda fa chiedere ai suoi personaggi cosa sia più giusto, ci parla di cicatrici e armature mostrandoci solo il necessario, senza retorica, con quella leggerezza che sa raggiungere attraverso l’ellissi e la sottrazione per fare emergere con naturalezza la forza dei sentimenti.
Infine, ci regala alcune scene iconiche, come quella della preghiera laica della giovane madre, che non serve ad espiare le colpe, ma a lenire ogni dolore: “Grazie per essere venuto al mondo, Sang-hyeon / Grazie per essere venuto al mondo, Dung-Soon / Grazie per essere venuto al mondo, Woo-sung / Ma soprattutto: Grazie per essere venuta al mondo, So-young.”
Lidia Liotta
Da Jean Vigo (Zero in Condotta, 1933) a François Truffaut (I quattrocento colpi, 1959 e Gli anni in tasca, 1976) fino alle opere più recenti di Laurent Cantet (La classe, 2008) e Olivier Ayache-Vidal (Il professore cambia scuola, 2017), per citare solo le opere più importanti e fortunate dai tempi del muto ai giorni nostri, la vita fra le mura scolastiche è stata al centro delle opere dei più importanti cineasti francesi.
Laboratorio sociale o istituzione in cui si riproducono le rigidezze e le fallacie di società classiste e autoritarie, la scuola è il luogo in cui le energie dei giovani si rafforzano, si incanalano o si disperdono. Qualche volta quello in cui, fra entusiasmo e ideologia, si preparano le rivoluzioni.
A questo stesso mondo si approcciano, con intento da principio fortemente autobiografico, lo sceneggiatore-scenografo Mehdi Idir e il poeta slameur Fabien Marsaud alias Gran Corps Malade tornando a Franc-Moisin nella città di Saint Denis, banlieue di Parigi, dove entrambi sono nati e hanno studiato. A trenta minuti di treno dal centro della capitale, questo popoloso quartiere raccoglie soprattutto famiglie di immigrati maghrebini e delle colonie: seconde e terze generazioni che della cultura di origine conservano spesso appena i nomi. Nel sistema scolastico francese tali aree sono oggi considerate Zona di Educazione Prioritaria (ZEP) con la definizione di varie strategie per venire incontro alle classi socialmente svantaggiate rispetto all’educazione scolastica, a segno di un interesse mantenutosi al variare dei governi dagli anni ‘80 in poi.
I registi, entrambi vocati ad un approccio diretto e realistico, hanno selezionato luoghi ben noti e scelto buona parte degli attori fra coloro che in essi vivono la loro quotidianità, prediligendo un tono di commedia che si serve del linguaggio provocatorio e sfidante degli adolescenti del presente e dei ritmi hip hop della loro musica prediletta, ma non rinuncia a rappresentare i risvolti drammatici delle loro vite, impossibili da mascherare dietro la leggerezza e spensieratezza dell’età.
Sulle tracce dei ricordi felici degli anni adolescenziali e girando con libertà talora documentaristica per le strade del quartiere, le aule e i corridoi, mettendo insieme ricordi divertenti o drammatici della loro esperienza studentesca, gli autori cercano di scoprire i cambiamenti intervenuti attraverso la conoscenza con i ragazzi del liceo. E scoprono così che essi sono oggi alle prese con problemi non troppo dissimili da quelli che loro stessi hanno incontrato nel loro personale processo di maturazione, oltre vent’anni prima. Problemi che si sostanziano nel quotidiano confronto con il proprio piccolo mondo: il gruppo degli amici, le regole rigide dell’istituto, i professori più o meno capaci di offrire guida e sostegno e i familiari adulti, talora distratti e assorbiti dal proprio difficile processo di integrazione, tra il lavoro e i bisogni della quotidianità in una terra straniera.
La scuola diventa così per i ragazzi il perno attorno al quale ruotano molti degli interessi, ma soprattutto il luogo ove è loro offerta l’opportunità di incontrare figure capaci di guidarli nella ricerca di un senso di sé e a sfidarli a mettersi alla prova per riconoscersi capacità e perseguire passioni, sviluppando qualità professionali e umane che potranno esser loro utili nella vita.
Queste persone possono fare la differenza, in positivo o in negativo, ed indubbiamente in questo variegato contesto si incontrano tutte le possibilità.
Spicca fra esse Samia Zibra, la giovane ma capace e appassionata CPE (Consigliera Principale d’Educazione), alla quale è demandato il complesso e delicato incarico di far da collegamento fra i docenti, gli studenti e le famiglie. Alla sua scrivania arrivano prima o poi tutte le urgenze, i casi di indisciplina e le frustrazioni di coloro che si muovono fra le mura scolastiche e sarà un suo merito districarsi fra mille sollecitazioni riuscendo a conservare la capacità di attenzione per i ragazzi e l’interesse umano per loro. È cresciuta in fretta, nel suo passaggio dalle tranquille alture dell’Ardéche alla sterminata pianura dell’interland parigino, e ha imparato a fare la differenza, senza lasciarsi scoraggiare né dalle provocazioni e le furbizie degli alunni né dalla ferma severità o inadeguatezza dei genitori, parando i danni provocati da qualche collaboratore infedele o troppo superficiale. La sua storia si intreccia con quella di Yanis, esempio archetipico dello studente che alcuni professori vorrebbero avere in classe nella convinzione di poterne ricavare qualcosa di buono, costruendo sulla sua intelligenza e prontezza, e che invece altri vorrebbero levarsi di torno al più presto per non avere a che fare con certi suoi eccessi di insolenza provocatoria. Ma Yanis, incapace di riconoscersi un valore, di immaginare un futuro per se stesso, di riconoscere i propri interessi, è proprio il caso che discrimina il successo dall’insuccesso di un metodo scolastico, perché con i ragazzi spesso il conseguimento del solo obiettivo di tenerli via dalla strada può essere comunque un fallimento.
di Ornella De Stefano
Si apre con un volto e si chiude ancora con un volto Tori e Lokita, il nuovo, splendido film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, giunti al loro dodicesimo lungometraggio di fiction (senza contare quindi i loro numerosi documentari), e presentato in concorso a Cannes dove ha vinto il Premio del 75º anniversario. Due volti giovani, due volti di esseri umani di pelle nera. Africani. Uno di giovane donna, quello con cui il film si apre, l’altro di un ragazzino, quello con cui il film si chiude.
Si apre con un primissimo piano su un volto dallo sguardo inquieto che sembra chiedere speranza, si chiude con un volto inquadrato dall’alto il cui sguardo volge verso il basso, nella mestizia. Proveremo a spiegare cosa rappresenti questo movimento tra l’alto e il basso, e a suggerire cosa nasconda questa mestizia del finale. Sono comunque due personaggi unici, che lasciano il segno, degni della grande letteratura per la precisione con cui sono delineati e per la loro presenza vitale.
Qualcuno troverà forse il cinema dei due registi belgi ripetitivo; al contrario noi pensiamo che quel cinema sia un raro miracolo nel tenersi in equilibrio continuo tra finezza, profondità, intensità, nell’esprimere al contempo grande forza morale e grande umanità pur essendo implacabile nella messa in scena, sempre serrata, di situazioni tra le più abiette di cui la gente comune, o altri immigrati, sono capaci. Un cinema più che mai necessario. E di conseguenza molto bene ha fatto la Lucky Red, che porta il film nelle sale italiane, a dedicargli una sorta di retrospettiva.
“Quale frase vorrebbe sulla sua tomba, come epitaffio?”. “Penso ancora a ciò che Albert Camus scrisse. ‘Forse non possiamo impedire a questo mondo di essere un mondo in cui i bambini soffrono. Ma possiamo diminuire il numero di bambini che soffrono. E se non ci aiuti tu, chi altro al mondo può aiutarci?’”.
Questo estratto di un’intervista di David Frost a Robert Kennedy per la Bbc, trasmessa nel maggio del 1968, poco tempo prima del suo assassinio, riassume forse il film nel suo senso più profondo. Il bambino abbandonato nel bosco dall’adulto assurge qui a simbolo di un’umanità intera abbandonata a se stessa. Detto in altri termini, se non ti interessi tu a noi, spettatore, chi altri lo farà?
Il peggio da temere e il meglio da aspettarsi è semplice da dire. Il peggio è la guerra atomica. Il meglio sarebbe questo: una vita di perpetua paura e tensione; un carico di armi che prosciuga la ricchezza e il lavoro di tutti i popoli; uno spiegamento e uno spreco di forza impiegato per sfidare il sistema americano o il sistema sovietico. Ogni cannone prodotto, ogni nave da guerra varata, ogni razzo lanciato significa, in definitiva, un furto ai danni di coloro che hanno fame e sono senza cibo, di quelli che hanno freddo e sono senza vestiti. Questo mondo in armi non sta spendendo solo soldi. Sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. Il costo di un moderno bombardiere equivale a una moderna scuola di mattoni in più di 30 città. Equivale a due centrali elettriche, ciascuna al servizio di una città di 60mila abitanti. Equivale a due ottimi ospedali completamente attrezzati. Equivale a circa cento chilometri di strade asfaltate. Questo è, ripeto, il miglior modo di vivere che si possa trovare sulla strada che il mondo ha intrapreso. Ma questo non è affatto un modo di vivere, in alcun senso legittimo. Dietro le nubi di guerra c’è l’umanità appesa a una croce di ferro.
Il discorso Chance for Peace che il presidente statunitense Dwight D. Eisenhower pronuncia nel 1953, poco tempo dopo esser entrato in carica, è quasi prologo o complemento alla frase di Kennedy. Riletto a distanza, risuona quasi come atto d’accusa a una politica - ma anche al mondo industriale e finanziario - che non pare più capace di produrre né discorsi alti né grandi visioni. Proprio quando ce ne sarebbe il massimo bisogno. In altre parole i due volti che aprono e chiudono il film dei Dardenne, ci interrogano sulla sofferenza di un’intera umanità, una sofferenza fatta anche di grandi speranze disattese che parte da lontano. Il bambino e con lui l’umanità tutta appesi da troppo, davvero troppo tempo, alla croce di ferro.
La rappresentazione di tutto questo in un’opera d’arte si può esplicare in più modi. Nel caso del cinema dei fratelli Dardenne, sono la regia e il montaggio in particolare a costruire, a scavare in profondità il senso del film, portandolo appunto più in alto, pur ritraendo, fotografando, quella realtà. Non bisogna mai stancarsi di comprendere meglio la sofferenza di quell’umanità, le sue dinamiche sociali racchiuse all’interno della vita più quotidiana, anzi la più prosaica. La più faticosa.
Tori è un ragazzino originario del Benin che spaccia per conto di un giovane cuoco dell’est che sfrutta anche al limite di ogni umanità la manodopera africana in serre segrete. Ma Tori esprime una distanza e una saggezza rispetto a tutto questo che lascia esterrefatti, da adulto. Ed è legatissimo a Lokita, giovane donna originaria invece del Camerun che lo ha protetto da quando si sono conosciuti nell’imbarcazione con cui sono arrivati. Lui, in quanto “bambino stregone” perseguitato, ha diritto automaticamente alla protezione e ai documenti, lei ha il sogno di diventare parrucchiera e tenta di avere i documenti cercando di far credere agli assistenti sociali che sono fratelli.
I Dardenne, che sono due fratelli veri da un punto di vista sia biologico sia spirituale, in appena un’ora e mezza costruiscono con precisione certosina la dinamica commovente del rapporto tra due esseri in totale simbiosi, fratelli non biologici ma legati spiritualmente anche se mossi in apparenza dal motore della necessità.
E mostrano però, con altrettanta precisione, come la dinamica economica sia inumana e costruita da altri esseri umani, in alto come in basso sulla scala sociale, facendo così eco in qualche modo alle parole di Eisenhower sui costi per le armi e i soldi destinati alle cose che sono davvero utili alla povera gente: un divario è diventato una voragine. Un’eco che tocca anche un paese come il nostro, ricco ma al contempo indebitato come pochi in Europa e tuttavia bisognoso più che mai di denari per i servizi sociali e dove nondimeno quasi l’intero spettro politico si dice d’accordo nell’aumentare la spesa degli armamenti per chissà quali conflitti. Il film tratta dell’ingranaggio depauperante dell’umanità tutta. Guarda dal basso verso l’alto.
Abbiamo detto che la necessità è il motore apparente. Ma ben concreto. La costante necessità. L’affanno. Quell’affanno concreto ed esistenziale che i Dardenne, figli della grande lezione del cinema di Robert Bresson (nel 2011 a Venezia vinsero anche il premio intitolato al regista), hanno rappresentato con la camera ansiogena ma etica sul corpo della povera Rosetta - Palma d’Oro a Cannes nel 1999 - un personaggio che in Belgio è diventato una figura quasi mitica per i lavoratori.
Nei precedenti film dei registi c’è già un po’ tutto, la loro filmografia è davvero come un’unica opera gradualmente ampliata a formare un solo grande affresco.
La solitudine (la canzoncina dell’infanzia che Tori si fa cantare da Lokita nel silenzio della notte, le cui parole in lingua etnica non venendo tradotte restano misteriose). Le molestie o le violenze sessuali che devono subire delle umili lavoratrici. Gli attori non professionisti che si mescolano a quelli professionisti fino a essere indistinguibili. Il passare da giovani uomini a giovani donne, da ragazze a ragazzi, da persone di pelle bianca autoctone a immigrate bianche dell’est Europa (Il matrimonio di Lorna, 2008, vincitore a Cannes per la miglior sceneggiatura) fino allo sfruttamento di immigrati clandestini provenienti dall’Africa messi in evidenza già in La promessa, il loro primo film importante (presentato nel 1996 a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs). Senza dimenticare il conflitto lacerante tra generazioni su visioni del mondo o etiche. I Dardenne guardano a tutti con eguale empatia, siano esseri umani di altre etnie o bianchi poveri o impoveriti. E gli sfruttatori possono essere un po’ dappertutto.
E infine non c’è mai niente di didascalico nella loro opera. Come in Tori e Lokita dove scorre con naturalezza la meccanica delle cose, e dove ogni attore restituisce con micidiale naturalezza la vita, bella o brutta che sia (di grande importanza è vederlo in lingua originale, se possibile). La dinamica umana, che suscita nello spettatore empatia verso i due protagonisti, si sovrappone poi a questa meccanica, l’una e l’altra formando il reticolo inestricabile della vita vera.
I Dardenne lavorano con finezza sui meccanismi del film noir (come già in La ragazza senza nome). Tori è il vero protagonista, davvero unico e non somiglia a nessuno, come gli dice Lokita a un dato momento. Aggiungiamo che Tori è come un topolino curioso che si intrufola dappertutto, ma anche saggio e furbissimo. Quasi il Topolino brillante detective dei fumetti: non dimentichiamo che Adolf Hitler vietò quel personaggio in Germania perché impaurito dal primo Topolino, quello di Walt Disney: sembrava un negro ma era intelligente e simpaticissimo, vispo e comunicativo. E nella canzone Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi che lui e Lokita cantano per i clienti del ristorante, si parla guarda caso di un topolino comprato per due soldi all’interno di una catena che si autodivora.
Il “carico di armi che prosciuga la ricchezza e il lavoro di tutti i popoli” si fa sentire fortemente in questo film alto sull’infanzia rubata che tenta la sua resistenza. Uscendo dalla sua visione, Tori e Lokita non ci lascia più, al pari dei suoi due protagonisti.
Francesco Boille (Internazionale, 1 dicembre 2022)
È già lì, nel titolo, lo spunto etico e politico che ha dato vita all’ultimo film di Jean-Pierre e Luc Dardenne: Tori e Lokita, due nomi propri che condensano tutti gli sguardi, che sono al centro non solo di una storia, ma del desiderio di ogni spettatore di avvicinarsi ad essa, di esserne parte, di condividerla come una forma di necessario riscatto della memoria. L’origine del film è infatti un articolo di giornale apparso in Belgio qualche tempo fa, in cui si raccontava la storia di due persone scomparse, che facevano parte di un gruppo di migranti arrivati recentemente nel Paese. Due ragazzi di cui si perderanno per sempre le tracce. La loro storia rimarrà non raccontata, essi entreranno nel lungo, enorme elenco di esistenze senza nome, senza visibilità.
È da qui che parte l’idea del film: restituire una storia, un volto e un corpo a due esistenze che sono consegnate all’oblio. Non si tratta (non si può trattare) della loro vera storia, perché di queste due persone non sappiamo molto. Si tratta peraltro di una possibilità, di una storia che ricade nell’ambito del possibile; quel tipo di storia che il cinema può creare, reinventare, rendere visibile. Ecco allora nascere la storia di Tori e Lokita, un ragazzino di forse 12 o 13 anni e una ragazza leggermente più grande, che si fanno passare per fratello e sorella, ma il cui rapporto strettissimo nasce in realtà durante il lungo viaggio che dall’Africa li ha portati sino in Belgio, passando per la Sicilia, dove i due apprendono da una donna che li aiuta quella che diventerà la loro canzone preferita e che credono essere una antica canzone del luogo: Alla fiera dell’est di Branduardi. Due nomi propri, due storie che diventano una, come il legame tra un ragazzino e una ragazza, che si proteggono lungo tutto il viaggio. I due sono inseparabili, o vorrebbero esserlo: Tori ha già i documenti in regola (è stato riconosciuto come perseguitato), Lokita no, e tenta in tutti i modi di averli, per poter rimanere insieme a colui che ha scelto come fratello.
Due nomi, due storie, due riscatti necessari, ovvero la necessità di creare una memoria per volti altrimenti invisibili. Per i fratelli Dardenne questo significa decidere per la vicinanza dello sguardo, per una macchina da presa che sia vicina ai due personaggi, a Tori e a Lokita, che sia capace cioè di riscattare la loro invisibilità stando “con” loro, senza “diventare” loro, senza assumere il loro sguardo. Le inquadrature infatti si susseguono in modo da seguire, insieme o parallelamente i movimenti dei due giovani, gli scarti veloci e decisi di Tori e l’andamento più lento e incerto di Lokita, mentre intorno a loro, il mondo fa sentire la sua presa gelida: il cuoco del ristorante italiano a capo di una banda di spacciatori; il gangster africano che continua a chiedere soldi a Lokita in cambio del viaggio che le ha permesso di arrivare in Europa; la commissione che valuterà la ragazza per la sua richiesta di asilo; il complice del cuoco che porta la ragazza nel laboratorio in cui si produce la marijuana che il cuoco distribuisce in città (e che Tori e Lokita spacciano nelle strade); persino gli operatori sociali che aiutano i due ragazzi nel centro per richiedenti asilo.
Tutti i personaggi che circondano i due ragazzi sono visivamente sfuggenti; rare e brevissime sono le inquadrature che ne mostrano i volti. La macchina da presa si sofferma su di loro solo se è il movimento del ragazzo o della ragazza a permettergli di entrare in campo. Quel mondo, in fondo ostile o impotente, non entra mai in relazione con i due protagonisti: la loro solitudine e la loro necessità di stare insieme, di lottare e sopravvivere insieme, è sottolineata anche dall’esclusione di tutto il resto, che rimane se non fuori campo, almeno difficilmente visibile.
La macchina da presa segue i due personaggi senza mai divagare. Li lascia andare, vagare, scappare, camminare, correre, nascondersi, fare in fretta. E ogni volta si affanna a seguirli a mantenerli all’interno dell’inquadratura nonostante la loro velocità, i loro movimenti erratici. Loro, il loro essere “due”, essere famiglia senza legame di sangue, è il movimento che si situa al centro di tutto, del film come di ogni singola inquadratura. Il resto, anche ciò che li schiaccia o li divide, quello no, rimane fuori, appena visibile. Il classico raccordo del campo-controcampo scompare. Vediamo Tori parlare con la valutatrice che ha appena respinto la richiesta di asilo di Lokita senza che la macchina da presa si alzi per inquadrare il volto della donna. Vediamo il primo piano di Lokita ma rimaniamo con lei, mentre il suo interlocutore appena compare nell’inquadratura. Vediamo Tori correre in bicicletta e fermarsi perché i due trafficanti di corpi umani lo bloccano. Ma la macchina da presa rimane con lui, sul suo sguardo e le sue parole che non tradiscono colei che lui considera sua sorella. Al trafficante è concesso solo un breve momento, quando la macchina da presa con un rapido movimento lo mostra allo spettatore. La simmetria è negata, nessuno, mai, ha la stessa importanza dei due ragazzi. Solo loro possono essere veramente “due”.
Il “due” a cui i registi fanno riferimento è il due che unisce, è il germe, il nucleo originario di ogni collettività, di ogni “essere insieme”. Allo stesso modo vivono la loro esistenza Tori e Lokita, anche senza essere realmente fratello e sorella (ma scegliendo di esserlo nei fatti): il “due” per loro non è la struttura che separa, frammenta e poi unisce (appunto la regola del campo-controcampo); non è il confronto, lo scontro dialettico, il duello persino. È la scelta di essere insieme, quando il mondo ti espelle o non ti riconosce.
Ecco perché il controcampo non può essere dato nel film: quello che Tori e Lokita vivono sulla loro pelle è proprio lo squilibrio del potere, il loro essere soli, il loro essere messi da parte. Le inquadrature non possono equivalersi. Chi li sfrutta, chi li domina, li compiange, o li guarda con indifferenza non può essere come loro, non può avere gli stessi primi piani, non può essere alla loro altezza, all’altezza di uno sguardo che li accompagna. La loro storia può essere solo immaginata e quindi raccontata come tale. E questo è il gesto etico che fonda il film, il suo stesso esistere. Ridare un volto, sia pure di finzione a chi quel volto, quella visibilità non può più averla. Ma il gesto etico è alla base di un gesto politico, che è sempre nelle immagini, nel cinema. Ed è qui che si apre il finale del film, la sua secchezza, il suo découpage che non lascia scampo, ma che non abbandona i suoi personaggi, lasciando a Tori il compito dell’ultimo sguardo, dell’ultimo canto, prima che lo schermo torni nero, e l’oblio torni a rivendicare la sua priorità.
Daniele Dottorini (fatamorganaweb.it, 14 novembre 2022)
TORI E LOKITA
Si esce dall’infanzia senza sapere che cosa sia la giovinezza,
ci si sposa senza sapere che cosa sia l’essere sposati,
e anche quando si entra nella vecchiaia non si sa dove si va:
i vecchi sono bambini innocenti della loro vecchiaia.
Milan Kundera
Nevia ha 17 anni, vive con la nonna Nanà e la sorella più piccola, Enza. Poi c’è ’a zia Lucia, vicina di “casa” nel campo-container di Ponticelli in cui abitano, una prostituta e un’amica della nonna, all’occorrenza collega, quando le due anziane signore decidono di riscendere in campo, o meglio per strada, nel tentativo di risolvere i loschi affari di famiglia. E infine c’è la mamma morta, nella foto con i cerini sempre accesi sul comò della camera da letto di Nevia, Nanà e tutte le altre.
Nell’universo femminile di Nevia, opera prima di Nunzia De Stefano, gli uomini sono o dietro le sbarre, come il padre di Nevia con cui la ragazza non vuole avere niente a che fare, o in belle case comprate a suon di scarpe rubate in cui Nevia, per niente al mondo, vuole abitare: «È piccerella ancora, non ci pensa a ‘ste cose» si preoccupa Nanà di rassicurare il padre di Salvatore, giovane galeotto promesso sposo della ragazza ribelle. Ma più cresce e più Nevia, dallo sporco in cui abita (lei raccoglie spazzatura nel quartiere), si ostina a guardare il mondo con occhi puliti e riesce così a ritrovare una famiglia proprio in chi è senza casa: i nomadi del circo Orfei che le offrono un lavoro (accudire gli animali), una sedia a tavola e un posto nel mondo, anche se quello edulcorato dei numeri di prestigio, tra trapezisti, cavalli con criniere da pettinare e rinoceronti a cui lavare i denti.
Nell’universo femminile degradato da cui proviene, Nevia è ritratta da uno sguardo altrettanto femminile che ne delinea i tratti acerbi con sentita vicinanza (c’è qualcosa di biografico nella storia di Nevia/Nunzia) e la giusta distanza garantita dalla trasfigurazione favolistica di matrice zavattiniana (in cui si scorge l’eco dell’universo garroniano, produttore del film). In un’atmosfera onirica in cui, non a caso, si dorme tanto e ci si risveglia altrettanto, le figure femminili assumono infatti contorni fiabeschi: la prostituta nera che sembra “un alieno”, la zia eccentrica con la testa imbrattata di maschera o di mollette per i panni, la nonna che stende pennellate di trucco sulle rughe mentre l’amica si impaietta le cosce abbondanti.
Nevia è un’opera uguale a tante altre nel panorama italiano contemporaneo, per il racconto del percorso di formazione di un personaggio femminile adolescente - come lo è Gelsomina ne Le meraviglie (2014) di Rorhwacher, Fiore (2016) nell’omonimo film di Giovannesi, Agnese in Cuori puri (2017) di De Paolis, Maria ne Il Vizio della speranza (2018) di De Angelis, solo per citare alcuni esempi recenti -, e tuttavia è un film diverso da tutti gli altri, innanzitutto perché l’adolescente qui è senza madri né padri.
In particolare, per il racconto di formazione intriso di napoletanità, il film si ricollega ad altri due: Il cratere (2017) e Indivisibili (2016) ma, anche qui, se nel film di Luzi e Bellino il percorso della protagonista Sharon, di fatto figlia unica nel legame esclusivo col padre, era ostacolato da quest’ultimo, in quello di De Angelis le due sorelle Fontana, essendo siamesi, per staccarsi dai genitori, dovevano anche, letteralmente, separarsi da se stesse. In Nevia invece tutto si gioca su un piano orizzontale, è nel rapporto Nevia-Enza che emerge la possibilità del riscatto: nonostante la differenza di età e un prevedibile lato protettivo della maggiore sulla minore, è Nevia a farsi complice delle monellerie della più piccola (quando rubano l’iguana nel circo) ed è Enza a rubare i soldi a Salvatore, passando sopra il suo corpo inerme quando Nevia, per difendersi, lo stende a terra.
C’è, nel rapporto tra sorelle, uno scambio. E in quello scambio sta la forza, del film e della possibilità di felicità che questo racconta: nello sguardo simmetrico tra due sorelle, senza padri, senza madri, né loro sostituti (come ritroviamo in altri film dello stesso filone, nel ruolo di preti, insegnanti, psicanalisti, ecc.). Gli unici due personaggi adulti “buoni” del film, ‘a zia e il proprietario del circo non sono capaci di assolvere neanche a questo ruolo, segnati la prima da una condizione di solitudine (una bruttezza dell’anima che le ha impedito di costruirsi una famiglia sua), il secondo di infermità (quando Nevia scopre che è malato, l’uomo la allontana).
Non cadendo in trappole melodrammatiche e piuttosto cedendo a momenti comici che alleggeriscono la narrazione, l’andamento del film è quello che muove gli inizi di un romanzo di formazione (si vuole abbandonare il mondo a cui si appartiene per crescere), la forma simbolica anche della contemporaneità (come, per Moretti, lo è stata della modernità) perché, nel passaggio dall’infanzia alla vita adulta, racconta l’adolescenza, l’età che racchiude in sé il senso della vita, e di un mondo che cerca un suo senso nel futuro anziché nel passato.
E tra la forma (romanzesca) del film e il suo personaggio (Nevia) c’è un rapporto che si tiene ben in equilibrio: è un film che simula il senso di soffocamento di Nevia (le inquadrature molto strette, gli ambienti chiassosi e claustrofobici come il mercato o la discoteca) e i suoi tentativi di fuoriuscita (la corsa sul carrello, o le spinte sull’altalena). E poi c’è lo sguardo, quello femminile della regista, che non indaga i corpi ma scruta insistentemente i volti, avvicinandosi in primi piani, sdoppiando le immagini riflesse allo specchio delle donne che si truccano, guardandole di lato, ponendosi accanto alla sua protagonista, sin dalla prima scena, quella nel camion quando Nevia ha in braccio Enza e, anche di lato, la tristezza degli occhi di Nevia penetra lo schermo: «Mi hai mai chiesto come sto? Quanto mi manca mamma?» rimprovera a Nanà quando prova, maldestramente, a fare la nonna.
Questa Nevia che, nel suono ha qualcosa di lugubre della nenia (l’antico canto funebre femminile) ma già rivela la sua forza nella scelta del nome proprio come titolo (abbastanza inusuale nel panorama italiano) è dunque il ritratto, forte, di un tenace personaggio femminile (sorretto dalla prova d’attrice di Virginia Apicella) capace di trovare nello sporco della città che abita il pulito delle relazioni, negli animali che accudisce l’umanità che manca, nell’infanzia (della sorella) la sua maturità, nella morte (della mamma) la vita, nella forza la fragilità. E viceversa. E così è il film, come il suo personaggio, forte e fragile, nello stesso tempo, debole nella sua aderenza, eccessiva, all’immaginario favolistico del circo, e nella rigidità con cui ritrae personaggi maschili senza spessore.
“Qual è la differenza tra una puttana e una donna non innamorata?” chiede Nevia: “Nessuna piccirè, nella vita contano solo i denari”. Né la profonda sfiducia che abita la zia, né il cinismo scettico della nonna che, nella notte, taglia a Nevia un ciuffo di capelli non come rito di iniziazione ma per un dispetto egoista (lei non ce l’ha fatta e impedire alla nipote di fare di testa sua rende più sopportabile il peso del suo fallimento), possono aiutare Nevia: “Come mi posso salvare?” chiede Nevia ai grandi, ma i grandi del suo piccolo mondo non riescono ad illuminare il suo percorso.
Come la regista con il suo personaggio, così anche il personaggio la sua salvezza ce l’ha accanto. È nella sorellanza la salvezza, e il primo piano di Nevia su cui si chiude il film, il volto truccato (per il numero del circo) con quelle due lacrime nere sotto gli occhi che quasi riporta allo sguardo in macchina della Cabiria felliniana, è uno sguardo che, al contrario di quello, insiste, liberandosi in un sorriso, come la risata della sorella piccola si era liberata nel gioco sull’altalena.
È guardando il mondo alla stessa altezza, come nella scena in cui la più piccola è sul carrello della spazzatura mentre la più grande la spinge avanti, che, per Nevia ed Enza, la vita si lascia guardare davanti, lasciando dietro le colpe (dei padri), e rivelando che c’è sempre una possibilità di fare qualcosa di diverso con ciò che l’Altro ha fatto di noi.
di Nausica Tucci (fatamorganaweb - 7 settembre 2019)
Riferimenti bibliografici
F. Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999
N. Tucci, Il ritorno del figlio. Gli eredi nel cinema italiano contemporaneo, in AA.VV., Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 35, Infanzia, Pellegrini, Cosenza 2018.
Nevia è una ragazza di 17 anni con un carattere forte e ribelle che vive nel quartiere Ponticelli a Napoli. Orfana di madre e con il padre in carcere, vive in un campo container con la nonna paterna Nana, con la sorella minore Enza e con la prostituta Julia. Svolge alcuni piccoli lavori particolarmente precari in un quartiere dove “nascere femmina, è una vera disgrazia”. I contrasti con la nonna e con boss del quartiere, assieme alla protezione che cerca per lei per sua sorella minore, portano Nevia a ribellarsi.
Anche il modo di vestire di Nevia evidenzia questo anticonformismo. Indossa spesso abiti sportivi probabilmente per nascondere la sua femminilità che vuole nascondere al quartiere. Il rapporto più intimo lo ha con una fotografia della madre defunta alla quale si rivolge nei momenti più difficoltosi. Gli unici rapporti amichevoli che riesce ad avere sono con la sorella Enza e la zia Lucia, la quale spesso la ospita nel momento in cui nella casa della nonna arrivano i clienti.
Una speranza la trova quando nel quartiere arriva una compagnia circense. Nevia, dopo un primo apparente disinteresse, inizia a lavorare per il circo. In questo nuovo ambiente Nevia ritrova una speranza e le opportunità che Ponticelli non le ha mai saputo dare.
I rapporti con gli artisti e con gli animali del circo sono diametralmente opposti rispetto a quelli che ha con Ponticelli. Nei momenti passati al circo, la vediamo nutrire e accudite gli animali come se fossero persone care, ha con loro quel rapporto di affetto che, all’infuori di pochi casi, non riesce ad avere con gli abitanti del quartiere nel quale è cresciuta. Questi nuovi rapporti le danno quella gioia che fino a quel momento non avevamo ancora visto sul suo volto. Vede in queste persone venute da fuori città una vera famiglia che, per diverse ragioni, non ha mai avuto. Vede in loro una possibilità di riscatto verso l’ambiente in cui è cresciuta e dal quale vuole uscirne.
La stessa regista Nunzia De Stefano (attrice e sceneggiatrice, Nevia è la sua opera prima), ha vissuto per dieci anni nei container della periferia di Napoli dopo il terremoto in Irpinia del 1980 e da giovane ha pure lavorato nei circhi, come racconta nelle sue note di regia: «È il periodo decisivo per la costruzione dell’identità e della personalità di un individuo, è anche il più controverso, e i ricordi della mia giovinezza appartengono proprio ai dieci anni vissuti in un container nella periferia di Napoli, quando il terremoto degli anni ‘80 costrinse la mia famiglia a sfollare in un campo improvvisato, in attesa di una sistemazione adeguata. I giorni diventarono mesi e i mesi anni, ma la casa popolare non è mai arrivata e abbiamo imparato così ad adattarci a quella situazione drammatica, cercando di ristabilire una quotidianità perduta e abituandoci a vivere dignitosamente anche con quel poco che avevamo. Nel frattempo, generazioni sono andate e venute, ma i campi container ancora esistono: si sono tramutati in un piccolo mercato immobiliare di serie Z che offre spesso un tetto ai rifugiati di altre sfortunate realtà.
Allo stesso tempo, però, credo sarebbe un limite ricercare solo nella mia autobiografia il valore di questa storia. Quello di Nevia è un racconto di formazione, la descrizione delle peripezie e dei tanti ostacoli che si frappongono tra una giovane adolescente di diciassette anni e la conquista di una libera e matura consapevolezza di sé. Il contesto rappresenta soltanto lo sfondo di una vicenda che spero riesca ad acquisire un significato universale. Nevia è una ragazza che, come tante sue coetanee, combatte contro un destino che sembra già scritto, dalla famiglia o dalla società: è una Cenerentola moderna ma senza principe azzurro, che cerca con caparbietà e risolutezza il proprio posto nel mondo.»
Per una parte Nevia quindi può essere considerato un film autobiografico, ma la regista dunque non ha voluto con questo film raccontare la propria storia, ma evidenziare le problematiche, sia generali, sia giovanili, in dei contesti molto complicati e difficili da vivere, dove comandano gli uomini e le donne devono sottostare ai loro ordini. É un film al femminile, ma anche universale, si centra per quasi la sua intera durata sulla protagonista, e attraverso lei ci vengono presentate le diverse complesse situazioni che si possono trovare in questi contesti.
Anche se stilisticamente diverso, possiamo associare il personaggio di Nevia alla Rosetta dei fratelli Dardenne. Entrambe vivono in miseri accampamenti, entrambe vogliono riscattarsi dalla vita che stanno vivendo sognando un’esistenza “normale”.
Dario Condemi
Regia: Nunzia De Stefano
Sceneggiatura: Nunzia De Stefano, Chiara Ridolfi
Fotografia: Guido Michelotti
Scenografia: Daniele Frabetti
Costumi: Massimo Cantini Parrini
Montaggio: Sarah Mcteigue
Musiche: Michele Braga
Cast: Virginia Apicella (Nevia), Pietra Pontecorvo (Nanà), Rosy Franzese (Enza), Pietro Ragusa (Guido), Franca Abetegiovanni (Lucia), Simone Borrelli (Salvatore), Gianfranco Gallo (Peppe), Lola Bello Durojaiye (Julia)
Produzione: Archimede Film/RAI Cinema
Distribuzione: Archimede Film
Italia, 2019
Durata: 86’
RICONOSCIMENTI
In concorso alla 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti.
Nastri d’Argento 2021: candidatura Miglior Regista Esordiente
NUNZIA DE STEFANO
(Italia/Napoli)
FILMOGRAFIA
Tutte le immagini e i contenuti del sito sono di proprietà dei rispettivi autori, espressamente citati. E' vietata la riproduzione, anche parziale, di testi e foto. Non si assume alcuna responsabilità sulla veridicità dei contenuti e delle informazioni contenuti, in varia forma, nel sito.