Visti davanti, visti da dietro -
Rolando Iaria
DI MEMORIE E DI TEMPESTE - La filmografia di Kore'eda Hirokazu -
Il cinema di Kore'eda Hirokazu è un tentativo di ripensare il tema del legame, gettando uno sguardo “umano troppo umano” sull’imprevedibilità delle relazioni umane, sull’eccentricità delle costellazioni familiari, sulla memoria come nucleo enigmatico dell’identità personale.
Ho detto di un surplus di umanità, perché lo sguardo di Kore'eda è caratterizzato da una sorta di intimismo dell’esteriorità, da uno scandaglio dell’animo umano nell’intrecciarsi degli incontri e delle separazioni; spesso si tratta di esistenze ai margini – come in Dare mo shiranai o nell’acclamato Un affare di famiglia –, talvolta di esistenze deragliate – si pensi al seminale Maboroshi no hikari o al doloroso Ritratto di famiglia con tempesta –, o persino di esistenze al di là della vita terrena – le anime nel limbo di Wonderful Life.
L’opera di Kore'eda utilizza differenti messe a fuoco per osservare il vissuto dei propri personaggi, privilegiando, per così dire, le “coscienze infelici”, alle prese con il difficile compito di dare un senso alle proprie vite incrinate. Ciò appare evidente fin dal lungometraggio di esordio, Maboroshi no hikari (1995), storia di una difficile elaborazione del lutto, per la persistenza della presenza (fantasmatica) nella vita della protagonista Yumiko del marito, morto in circostanze misteriose.
Se il ricordo della morte può “infestare” la vita, lo stesso ricordo, per Kore'eda, può di converso tenere in vita oltre la morte, come dimostra Wonderful Life (1998, anche noto all’estero come After Life): in una sorta di limbo, le anime dei defunti, aiutate da alcune guide soprannaturali, devono scegliere il proprio ricordo più prezioso per portarlo con sé nell’aldilà, come fosse un cortometraggio da rivedere all’infinito. In un’atmosfera onirica e rarefatta, Wonderful Life mette in evidenza la difficoltà di ritagliare dalla propria vita un istante di pura gioia, qualcosa da conservare per l’eternità.
Kore'eda, erede anche visivamente di una genealogia che include Ozu Yasujirō e Mizoguchi Kenji, non si sottrae da una rappresentazione, allo stesso tempo inquieta e contemplativa, delle contraddizioni della società giapponese: se Distance (2001) esprime la necessità di fare i conti con l’attentato alla metropolitana di Tokyo del 1995 ad opera della setta Aum Shinrikyo – raccontato da Murakami Haruki in Underground –, Kūki ningyō (2009, titolo internazionale Air Doll) esplora il topos della bambola animata, proprio della tradizione giapponese, così come le dinamiche di un eros alienato e della distanza interpersonale nella realtà metropolitana del Sol levante. In entrambi i casi, il filtro cinematografico mostra un tratto, per così dire, spirituale, perché in Distance il tema è quello della connessione tra sopravvissuti e morti, in Air Doll quello del “burattino senza fili” alla vana ricerca di calore umano.
È tuttavia nel tratteggiare le costellazioni familiari che Kore'eda mette in scena psicodrammi e commedie umane con un realismo che vorrei definire “poetico”. Non perché Kore'eda indulga al lirismo, né nei mezzi espressivi né nella sceneggiatura, ma piuttosto per la sua capacità di creare atmosfere emozionali attorno alla fragilità inemendabile dei rapporti umani.
È il caso di Aruitemo, aruitemo (2008, titolo internazionale Still Walking), esplorazione delle fratture interne di una famiglia, che si rivelano nel momento in cui una coppia di pensionati si ricongiunge coi figli in occasione dell’anniversario della morte del figlio maggiore. In Still Walking, si continua, appunto, a camminare, mentre la vita dipana incomprensioni e rimpianti.
È la stessa crisi insanabile che attraversa Umi yori mo mada fukaku (2016, titolato in Italia Ritratto di famiglia con tempesta), che vede i protagonisti costretti ad andare avanti al di là del naufragio di una storia: Ryota Shinoda può solo provare a trovare un modo per fallire meglio, nel lavoro, nell’amore, nell’arte, come padre.
Di fronte al collasso delle strutture familiari e relazionali, gli esseri umani provano ad attrezzarsi per continuare a vivere. È quello che sono obbligati a fare, in Dare mo shiranai (2004, titolo internazionale Nobody knows), i quattro figli piccoli di una madre che li ha abbandonati per inseguire l’uomo di cui è innamorata.
È chiaro che per Kore'eda la famiglia non è un fatto naturale, ma elettivo: è un crocevia di affetti e di scelte. In Umimachi Diary (2015, titolo internazionale Little Sister, tratto dal manga omonimo di Yoshida Akimi), ambientato nella splendida cittadina di Kamakura, tre sorelle accolgono nella loro vita la sorellastra adolescente Suzu, figlia del padre che le aveva abbandonate 15 anni prima per iniziare una nuova convivenza.
In Soshite Chichi ni Naru (2013, uscito nelle sale italiane come Father and son, Premio della Giuria al Festival di Cannes), due famiglie si trovano confrontate con una scelta difficile, a seguito di uno scambio di figli avvenuto alla nascita e venuto a galla dopo sei anni. Si tratta di dover scegliere se tenere il bambino che hanno cresciuto o riprendere con sé il figlio biologico. Dopo lunghe riflessioni e turbamenti, il legame affettivo prevarrà su quello genetico.
La consacrazione definitiva di Kore'eda, confermata dalla Palma d’Oro a Cannes, arriva con Manbiki kazoku (2018, titolo italiano Un affare di famiglia), in cui un gruppo familiare atipico non è tenuto insieme da vincoli di sangue ma dalla condivisione di un destino segnato dall’arte di arrangiarsi. È il magnifico ritratto di una famiglia improbabile e sgangherata, che vivrà di espedienti finché le sarà possibile.
Tuttavia, l’opera di Kore'eda resta incredibilmente variegata, come dimostrato da La Vérité (2019, giunto in Italia come Le verità), in cui il “quadretto familiare” è composto da una diva del cinema francese (interpretata da Catherine Deneuve) con la figlia sceneggiatrice, il genero attore e la nipotina. Il dramma dei rapporti interpersonali è qui inserito in quello che è anche un film sul cinema, con riferimenti anche stilistici alla Nouvelle Vague.
La vocazione internazionale di Kore'eda trova conferma nel suo ultimo lavoro, Broker (2022, al cui titolo originale è stato aggiunto in Italia Le buone stelle), primo film del regista in lingua coreana. Ancora una volta la storia di un legame atipico, tra un “broker” di buone azioni, il suo socio e un bebè abbandonato.
La miniera già ricchissima del cinema di Kore'eda continua a portare alla luce straordinari affreschi attorno all’imprevedibilità, densa di amore e dolore, del farsi, disfarsi e rifarsi delle relazioni umane.
Fabio Domenico Palumbo
Tra disagio e quotidianità -
Un interessante sguardo sul mondo della scuola lo ha gettato, pur in piena chiusura scolastica durante la pandemia, l’inosservato, ma meritevole, Marco Polo, un anno tra i banchi di scuola di Duccio Chiarini. Un’operazione di qualità che nella sua originale e compiuta forma esteriore, resta pregevole per le premesse e le conclusioni alle quali giunge. Un film che, scansando luoghi comuni sul mondo scolastico, sa lavorare con intelligenza sul progressivo e interattivo (tra allievi e docenti) crearsi della formazione scolastica.
Quanto al resto, in tema di convivenza scolastica e strutturazione dell’insegnamento, viene in mente, senza andare troppo indietro nel tempo, almeno La classe di Laurent Cantet che aggredisce il tema della convivenza tra l’insegnante e suoi indisciplinati alunni.
L’anno che verrà continua, quindi, nel solco già da altri tracciato, e si inserisce con autorevole piglio nel tema dell’istituzione scolastica. Lo fa con una sua propria personalità, con un taglio e un registro altrettanto originale, avvalendosi di un cast di qualità, nonostante si tratti di giovani attori non professionisti, ma reclutati dall’occhio attento del responsabile del casting. Si tratta di giovani che provengono dallo stesso quartiere dentro il quale si svolge il racconto, sapendo assorbire da quell’ambiente ogni utile suggestione che diventa pietra angolare del film.
Diciamo subito che L’anno che verrà, possibile traduzione del più aderente La vie scolaire, per l’ampiezza ancora più comprensiva che presuppone, sa essere piacevole e perfino divertente, nonostante i temi trattati siano drammatici, a volte tragici e comunque raccontino del costante disagio della gioventù della immediata banlieue parigina come è quella di Saint Denise. È qui che si svolge la storia e dove la troupe ha trovato la disponibilità di una vivace e innovativa dirigente scolastica che ha accolto con favore la richiesta di utilizzo della scuola.
Un film corale che inizia al principio dell’anno scolastico e si chiude con l’inizio delle vacanze estive. Nella scuola è arrivata la nuova e giovane insegnante che coprirà il ruolo di Vicepreside. La scuola ha le classi cosiddette NOP nelle quali, come in una specie di sostegno, si intensificano alcuni insegnamenti al fine del recupero degli allievi più disagiati, anche di quelli che soffrono del divario economico con i loro compagni. Samia la giovane Vicepreside arriva dall’Ardèche e scopriremo che ha anche altre ragioni per lavorare a Saint Denise. Il suo lavoro è quello di fare da tutor ai ragazzi instaurando, ove occorra, un legame con le famiglie. Ma in particolare la giovane Samia tiene d’occhio Yanis.
È proprio Yanis, interpretato dal giovanissimo ed espressivo Liam Pierron, il personaggio attorno al quale la storia, le storie, prendono forma e si consolidano. Yanis è un personaggio dalle molte affinità biografiche con Mehdi Idir, uno dei due registi ed è in questo microcosmo da periferia, a trenta minuti da Parigi con i mezzi pubblici, in un luogo in cui i ragazzi, in maggioranza di origine algerina e maghrebina in generale, vivono le loro giornate tra piccolo spaccio e immaginati progetti sul futuro. È in questa specie di artefatto e credibile realismo, spezzato da un ritmo mai interrotto che L’anno che verrà sa mostrare le sue potenzialità, la sua insospettabile introspezione in quel mondo che appare appena fotografato e che invece percepiamo nella sua integrità. È una specie di manifesta autenticità di ciò che si guarda a dare vita a quella linfa benefica che scorre nelle immagini e cattura l’attenzione anche dello spettatore più scettico. Idir e Grand Corps Malad - dietro il quale si cela Fabien Marsaud che ha acquisito questo pseudonimo a causa di un incidente che ha ridotto la sua mobilità - nella scrittura e nel lavoro sul set hanno saputo coltivare questa originalità quasi esclusiva, anche con la rilettura di tracce autobiografiche, conferendo al film quel taglio lieve pur dentro un’ambientazione in cui si sente il tema del disagio dal quale nascono le microstorie di cui è costellato.
È in questo ambiente che cresce e vive Yanis, turbolento, anche provocatore e maleducato nei confronti del suo (antipatico) professore. Ma è nel privato, soprattutto con il suo amico Fodé, che Yanis sa mostrare il suo vero carattere, il suo rapporto con le cose, la coscienza dei propri limiti, le difficoltà e lo scetticismo per un futuro legato al cinema. Yanis si fa protagonista di uno spaccato commovente nel quale il suo doppio atteggiarsi, tra l’immagine pubblica e quella privata, si evidenzia e l’immagine sa percepire il vero nella vitalità di quella spontanea emozione. Yanis mostra il suo volto e la sua esperienza sa diventare vademecum interpretativo del comportamento giovanile. Un’autocritica che raggiungerà il culmine nel finale del film e tutti questi comportamenti faranno ricordare quelli di Antoine Doinel. Anche Yanis fa il suo diavolo a quattro nella scuola e rischierà l’espulsione, ma il suo angelo custode, l’attenta Samia, e la sua naturale inclinazione ad una verità dalla quale non si può prescindere, veglieranno su di lui.
L’anno che verrà sa essere il film dei fatti quotidiani e nella sua ostentata e vera leggerezza, senza pretese sociologiche o interpretative dei fenomeni sociali, sa farsi portavoce di quel disagio che risiede nell’assenza di prospettive che, purtroppo, riguarda anche il mondo degli adulti. Il racconto di Grand Corps Malad e Idir smette mette di essere, o meglio non è soltanto, un film sul mondo della scuola, pur mantenendone tutte le caratteristiche, per diventare qualcosa di più ampio, un tentativo di guardare ai rapporti familiari di questi ragazzi, in particolare con i genitori in relazione alla scuola, ad esempio. Un rapporto che Samia sa costruire, nel rispetto, ancora una volta, di quell’equilibrio, indispensabile, tra esigenze dell’istituzione scolastica e ambiente sociale e culturale di riferimento. È l’attuazione fruttuosa del suo progetto che vede coinvolte costantemente le famiglie nella gestione degli indisciplinati comportamenti dei ragazzi, delle loro turbolenze che diventano così terreno comune di intervento, tra famiglia e scuola.
In questa insistita quotidianità, è forse proprio la gestione del mondo scolastico a diventare centrale, in quell’ottica di preparazione alla vita che il percorso didattico, interamente considerato, dovrebbe essere. Non a caso, i due registi, come essi stessi dichiarano, hanno scelto di raccontare il periodo scolastico e di vita corrispondente alle scuole medie. Sono quelli gli anni in cui la formazione dei ragazzi è più urgente e per converso, anche più difficile e sottoposta, come avviene sempre, alle numerose e insidiose sollecitazioni. È in questa ottica che il film sembra svolgere il suo ruolo con egregi esiti, in quel veritiero rapporto umano che soprattutto Samia e il professore Messaoud (Soufiane Guerrab), sanno instaurare con i ragazzi e nel loro, mai trascurato, né affievolito, tentativo di patteggiare e contemperare le esigenze della scuola con l’istintivo rifiuto dell’attenzione per insegnamenti che i ragazzi reputano distanti dalle loro reali esigenze che sono soprattutto economiche. Comprendere a fondo questa frattura è arrivare alla radice del malessere, non sarà forse utile a guarirlo, ma aiuterà ad aprire una prospettiva di sguardo differente in questi giovani così marginali rispetto all’impero, ma così vicini ai suoi nocivi effetti.
È su queste riflessioni che ci si accorge, al di là della sua piacevole visione, di quanto L’anno che verrà centri il tema di questi difficili rapporti, di come sappia tenere in straordinario equilibrio tutti questi profili, insistendo con leggerezza sul tema dell’interazione con l’articolato mondo dei ragazzi ai fini di un migliore funzionamento del sistema scolastico, soprattutto nelle aree più difficili, come le tante Saint Denise dei nostri luoghi.
È un comune sentire di cui L’anno che verrà, insieme al citato Marco Polo, un anno tra i banchi di scuola, sanno farsi cinematografica ed efficace manifestazione che forse Ministri, Dirigenti, Responsabili a vario titolo, allievi e genitori, dovrebbero vedere per ricostruire, su queste prospettive, il tessuto connettivo di un sistema di istruzione che sia adeguato ai tempi e alle esigenze per tutti gli attori e i protagonisti dell’ampio scenario.
di Tonino De Pace (sentieriselvaggi.it – 7 ottobre 2020)
I film di Kore'eda abbracciano il mistero della vita e ci incoraggiano a
pensare al motivo per cui siamo qui e cosa ci rende veramente felici.
Roger Ebert
Dopo la Palma d’Oro al Festival di Cannes 2019 e il grande successo di pubblico di Affari di famiglia (visto nell’ultima rassegna del Circolo Zavattini), il regista giapponese si concede un’incursione nel cinema francese con La vérité e questa incursione nel cinema coreano. Ma con sostanziale coerenza Kore'eda dà continuità alla propria poetica.
Dal punto di vista estetico, senza concessioni ai volti più noti del cinema occidentale (Deneuve, Binoche, Hawke) e di quello sudcoreano: Bae Doo-na (attrice e modella nota a livello internazionale per i ruoli in Mr. Vendetta di Park Chan-wook, The Host di Bong Joon-ho, Cloud Atlas di Lana e Lilly Wachowski), e Song Kang-ho (protagonista in A taxi driver di Hun Chang e del premio Oscar 2019 Parasite di Bong Joon-ho) che per Broker, in Concorso al Festival di Cannes 2022, ha ottenuto il Premio per la Migliore Interpretazione Maschile.
Dal punto di vista narrativo, regalandoci un’ulteriore possibilità di indagine sull’infinita galassia delle costellazioni familiari.
Sì perché Broker inizia come un poliziesco, continua come un road movie, finisce come una commedia gentile.
Ma nella complessità della trama non rinuncia alla semplicità cristallina, ad una essenzialità che non contraddice mai la profondità dello sguardo, la ricerca di quel particolare, di quell’istante che irrompe nel quotidiano per romperne gli equilibri, per cambiare le sensibilità e i modi di guardare la vita.
In realtà, infatti, Broken è solamente, profondamente, empaticamente un’indagine sui sentimenti, sui desideri, sui traumi, sui vuoti e sulle assenze, sulle contraddizioni di personaggi che troveranno possibile soluzione solo nell’ascolto, nell’accoglimento, nel rispecchiamento reciproco. Solo nella possibilità di farsi “comunità”, di intercettare quei possibili legami, spesso inimmaginabili o improbabili, che possano ridisegnare le linee invisibili che tracciano le costellazioni.
Quelli che Kore'eda ci suggerisce nei suoi film sulla decostruzione della famiglia (Nessuno lo sa, Aruitemo aruitemo, Father and son, Little Sister, Ritratto di famiglia con tempesta, Un affare di famiglia, La Vérité) sono sempre sentimenti che se nascono dai legami di sangue hanno la necessità di un elemento catalizzatore, spesso legato alla memoria, al passato o a un evento straordinario e sovvertitore. Ma più spesso sono assolutamente “irregolari”, da ricercare nelle fratture della vita, nella casualità degli eventi, nella quotidianità e al contempo nella capacità di aprirsi a tutto ciò e agli altri.
Anche in Broker (Le buone stelle nel titolo italiano) il confine tra legalità, solidarietà, consanguineità, genitorialità e i loro opposti è molto labile. Ma anche qui essere capaci di superare il limite apre prospettive di vita e di speranza.
Tutto inizia dall’abbandono di un neonato in una “baby box”, “ruote degli esposti”, “culle per la vita” nelle quali negli ultimi anni in Corea del Sud vengono lasciati sempre più bambini insieme a lettere con storie strazianti. Ma So-young, la giovane madre in difficoltà, ci ripensa e si affida ad altre due vite disperate Sang-hyun e Dong-soo, che gestiscono un’attività clandestina di contrabbando di bambini. Inizia così un complicato e sgangherato viaggio di un disparato gruppo improvvisato, che metterà in gioco il concetto stesso di famiglia, alla ricerca dei genitori giusti, dei migliori offerenti, di una soluzione per un bambino, ma che diventerà anche la propria possibile occasione di salvezza, per saldare quel debito o credito nei confronti della genitorialità e dell’abbandono, per perdonarsi ed andare avanti. Per dare vita ad una famiglia allargata, sfidando l’idea dominante nella nostra società, con una possibilità che tale può essere solo superando i legami tradizionali.
Anche qui un elemento catalizzatore - un ragazzino intrufolatosi di nascosto nel furgone aggregandosi al gruppo - apparentemente insignificante sul piano narrativo, costringerà ognuno di loro a confrontarsi con la propria infanzia e a fare i conti con la necessità di diventare adulti.
La profondità dello sguardo di Kore'eda ci porta ad empatizzare con i suoi personaggi senza mai giudicarli. Ne ricerca la dimensione umana anche quando violano la legge, abbandonano il proprio bambino, sono costretti ad applicare leggi a volte ingiuste, ma sono personaggi tutt’altro che disumani, disponibili a una presa di coscienza e a evoluzioni psicologiche e sentimentali verso gli altri.
Kore'eda fa chiedere ai suoi personaggi cosa sia più giusto, ci parla di cicatrici e armature mostrandoci solo il necessario, senza retorica, con quella leggerezza che sa raggiungere attraverso l’ellissi e la sottrazione per fare emergere con naturalezza la forza dei sentimenti.
Infine, ci regala alcune scene iconiche, come quella della preghiera laica della giovane madre, che non serve ad espiare le colpe, ma a lenire ogni dolore: “Grazie per essere venuto al mondo, Sang-hyeon / Grazie per essere venuto al mondo, Dung-Soon / Grazie per essere venuto al mondo, Woo-sung / Ma soprattutto: Grazie per essere venuta al mondo, So-young.”
Lidia Liotta
Da Jean Vigo (Zero in Condotta, 1933) a François Truffaut (I quattrocento colpi, 1959 e Gli anni in tasca, 1976) fino alle opere più recenti di Laurent Cantet (La classe, 2008) e Olivier Ayache-Vidal (Il professore cambia scuola, 2017), per citare solo le opere più importanti e fortunate dai tempi del muto ai giorni nostri, la vita fra le mura scolastiche è stata al centro delle opere dei più importanti cineasti francesi.
Laboratorio sociale o istituzione in cui si riproducono le rigidezze e le fallacie di società classiste e autoritarie, la scuola è il luogo in cui le energie dei giovani si rafforzano, si incanalano o si disperdono. Qualche volta quello in cui, fra entusiasmo e ideologia, si preparano le rivoluzioni.
A questo stesso mondo si approcciano, con intento da principio fortemente autobiografico, lo sceneggiatore-scenografo Mehdi Idir e il poeta slameur Fabien Marsaud alias Gran Corps Malade tornando a Franc-Moisin nella città di Saint Denis, banlieue di Parigi, dove entrambi sono nati e hanno studiato. A trenta minuti di treno dal centro della capitale, questo popoloso quartiere raccoglie soprattutto famiglie di immigrati maghrebini e delle colonie: seconde e terze generazioni che della cultura di origine conservano spesso appena i nomi. Nel sistema scolastico francese tali aree sono oggi considerate Zona di Educazione Prioritaria (ZEP) con la definizione di varie strategie per venire incontro alle classi socialmente svantaggiate rispetto all’educazione scolastica, a segno di un interesse mantenutosi al variare dei governi dagli anni ‘80 in poi.
I registi, entrambi vocati ad un approccio diretto e realistico, hanno selezionato luoghi ben noti e scelto buona parte degli attori fra coloro che in essi vivono la loro quotidianità, prediligendo un tono di commedia che si serve del linguaggio provocatorio e sfidante degli adolescenti del presente e dei ritmi hip hop della loro musica prediletta, ma non rinuncia a rappresentare i risvolti drammatici delle loro vite, impossibili da mascherare dietro la leggerezza e spensieratezza dell’età.
Sulle tracce dei ricordi felici degli anni adolescenziali e girando con libertà talora documentaristica per le strade del quartiere, le aule e i corridoi, mettendo insieme ricordi divertenti o drammatici della loro esperienza studentesca, gli autori cercano di scoprire i cambiamenti intervenuti attraverso la conoscenza con i ragazzi del liceo. E scoprono così che essi sono oggi alle prese con problemi non troppo dissimili da quelli che loro stessi hanno incontrato nel loro personale processo di maturazione, oltre vent’anni prima. Problemi che si sostanziano nel quotidiano confronto con il proprio piccolo mondo: il gruppo degli amici, le regole rigide dell’istituto, i professori più o meno capaci di offrire guida e sostegno e i familiari adulti, talora distratti e assorbiti dal proprio difficile processo di integrazione, tra il lavoro e i bisogni della quotidianità in una terra straniera.
La scuola diventa così per i ragazzi il perno attorno al quale ruotano molti degli interessi, ma soprattutto il luogo ove è loro offerta l’opportunità di incontrare figure capaci di guidarli nella ricerca di un senso di sé e a sfidarli a mettersi alla prova per riconoscersi capacità e perseguire passioni, sviluppando qualità professionali e umane che potranno esser loro utili nella vita.
Queste persone possono fare la differenza, in positivo o in negativo, ed indubbiamente in questo variegato contesto si incontrano tutte le possibilità.
Spicca fra esse Samia Zibra, la giovane ma capace e appassionata CPE (Consigliera Principale d’Educazione), alla quale è demandato il complesso e delicato incarico di far da collegamento fra i docenti, gli studenti e le famiglie. Alla sua scrivania arrivano prima o poi tutte le urgenze, i casi di indisciplina e le frustrazioni di coloro che si muovono fra le mura scolastiche e sarà un suo merito districarsi fra mille sollecitazioni riuscendo a conservare la capacità di attenzione per i ragazzi e l’interesse umano per loro. È cresciuta in fretta, nel suo passaggio dalle tranquille alture dell’Ardéche alla sterminata pianura dell’interland parigino, e ha imparato a fare la differenza, senza lasciarsi scoraggiare né dalle provocazioni e le furbizie degli alunni né dalla ferma severità o inadeguatezza dei genitori, parando i danni provocati da qualche collaboratore infedele o troppo superficiale. La sua storia si intreccia con quella di Yanis, esempio archetipico dello studente che alcuni professori vorrebbero avere in classe nella convinzione di poterne ricavare qualcosa di buono, costruendo sulla sua intelligenza e prontezza, e che invece altri vorrebbero levarsi di torno al più presto per non avere a che fare con certi suoi eccessi di insolenza provocatoria. Ma Yanis, incapace di riconoscersi un valore, di immaginare un futuro per se stesso, di riconoscere i propri interessi, è proprio il caso che discrimina il successo dall’insuccesso di un metodo scolastico, perché con i ragazzi spesso il conseguimento del solo obiettivo di tenerli via dalla strada può essere comunque un fallimento.
di Ornella De Stefano
Si apre con un volto e si chiude ancora con un volto Tori e Lokita, il nuovo, splendido film di Jean-Pierre e Luc Dardenne, giunti al loro dodicesimo lungometraggio di fiction (senza contare quindi i loro numerosi documentari), e presentato in concorso a Cannes dove ha vinto il Premio del 75º anniversario. Due volti giovani, due volti di esseri umani di pelle nera. Africani. Uno di giovane donna, quello con cui il film si apre, l’altro di un ragazzino, quello con cui il film si chiude.
Si apre con un primissimo piano su un volto dallo sguardo inquieto che sembra chiedere speranza, si chiude con un volto inquadrato dall’alto il cui sguardo volge verso il basso, nella mestizia. Proveremo a spiegare cosa rappresenti questo movimento tra l’alto e il basso, e a suggerire cosa nasconda questa mestizia del finale. Sono comunque due personaggi unici, che lasciano il segno, degni della grande letteratura per la precisione con cui sono delineati e per la loro presenza vitale.
Qualcuno troverà forse il cinema dei due registi belgi ripetitivo; al contrario noi pensiamo che quel cinema sia un raro miracolo nel tenersi in equilibrio continuo tra finezza, profondità, intensità, nell’esprimere al contempo grande forza morale e grande umanità pur essendo implacabile nella messa in scena, sempre serrata, di situazioni tra le più abiette di cui la gente comune, o altri immigrati, sono capaci. Un cinema più che mai necessario. E di conseguenza molto bene ha fatto la Lucky Red, che porta il film nelle sale italiane, a dedicargli una sorta di retrospettiva.
“Quale frase vorrebbe sulla sua tomba, come epitaffio?”. “Penso ancora a ciò che Albert Camus scrisse. ‘Forse non possiamo impedire a questo mondo di essere un mondo in cui i bambini soffrono. Ma possiamo diminuire il numero di bambini che soffrono. E se non ci aiuti tu, chi altro al mondo può aiutarci?’”.
Questo estratto di un’intervista di David Frost a Robert Kennedy per la Bbc, trasmessa nel maggio del 1968, poco tempo prima del suo assassinio, riassume forse il film nel suo senso più profondo. Il bambino abbandonato nel bosco dall’adulto assurge qui a simbolo di un’umanità intera abbandonata a se stessa. Detto in altri termini, se non ti interessi tu a noi, spettatore, chi altri lo farà?
Il peggio da temere e il meglio da aspettarsi è semplice da dire. Il peggio è la guerra atomica. Il meglio sarebbe questo: una vita di perpetua paura e tensione; un carico di armi che prosciuga la ricchezza e il lavoro di tutti i popoli; uno spiegamento e uno spreco di forza impiegato per sfidare il sistema americano o il sistema sovietico. Ogni cannone prodotto, ogni nave da guerra varata, ogni razzo lanciato significa, in definitiva, un furto ai danni di coloro che hanno fame e sono senza cibo, di quelli che hanno freddo e sono senza vestiti. Questo mondo in armi non sta spendendo solo soldi. Sta spendendo il sudore dei suoi operai, il genio dei suoi scienziati, le speranze dei suoi figli. Il costo di un moderno bombardiere equivale a una moderna scuola di mattoni in più di 30 città. Equivale a due centrali elettriche, ciascuna al servizio di una città di 60mila abitanti. Equivale a due ottimi ospedali completamente attrezzati. Equivale a circa cento chilometri di strade asfaltate. Questo è, ripeto, il miglior modo di vivere che si possa trovare sulla strada che il mondo ha intrapreso. Ma questo non è affatto un modo di vivere, in alcun senso legittimo. Dietro le nubi di guerra c’è l’umanità appesa a una croce di ferro.
Il discorso Chance for Peace che il presidente statunitense Dwight D. Eisenhower pronuncia nel 1953, poco tempo dopo esser entrato in carica, è quasi prologo o complemento alla frase di Kennedy. Riletto a distanza, risuona quasi come atto d’accusa a una politica - ma anche al mondo industriale e finanziario - che non pare più capace di produrre né discorsi alti né grandi visioni. Proprio quando ce ne sarebbe il massimo bisogno. In altre parole i due volti che aprono e chiudono il film dei Dardenne, ci interrogano sulla sofferenza di un’intera umanità, una sofferenza fatta anche di grandi speranze disattese che parte da lontano. Il bambino e con lui l’umanità tutta appesi da troppo, davvero troppo tempo, alla croce di ferro.
La rappresentazione di tutto questo in un’opera d’arte si può esplicare in più modi. Nel caso del cinema dei fratelli Dardenne, sono la regia e il montaggio in particolare a costruire, a scavare in profondità il senso del film, portandolo appunto più in alto, pur ritraendo, fotografando, quella realtà. Non bisogna mai stancarsi di comprendere meglio la sofferenza di quell’umanità, le sue dinamiche sociali racchiuse all’interno della vita più quotidiana, anzi la più prosaica. La più faticosa.
Tori è un ragazzino originario del Benin che spaccia per conto di un giovane cuoco dell’est che sfrutta anche al limite di ogni umanità la manodopera africana in serre segrete. Ma Tori esprime una distanza e una saggezza rispetto a tutto questo che lascia esterrefatti, da adulto. Ed è legatissimo a Lokita, giovane donna originaria invece del Camerun che lo ha protetto da quando si sono conosciuti nell’imbarcazione con cui sono arrivati. Lui, in quanto “bambino stregone” perseguitato, ha diritto automaticamente alla protezione e ai documenti, lei ha il sogno di diventare parrucchiera e tenta di avere i documenti cercando di far credere agli assistenti sociali che sono fratelli.
I Dardenne, che sono due fratelli veri da un punto di vista sia biologico sia spirituale, in appena un’ora e mezza costruiscono con precisione certosina la dinamica commovente del rapporto tra due esseri in totale simbiosi, fratelli non biologici ma legati spiritualmente anche se mossi in apparenza dal motore della necessità.
E mostrano però, con altrettanta precisione, come la dinamica economica sia inumana e costruita da altri esseri umani, in alto come in basso sulla scala sociale, facendo così eco in qualche modo alle parole di Eisenhower sui costi per le armi e i soldi destinati alle cose che sono davvero utili alla povera gente: un divario è diventato una voragine. Un’eco che tocca anche un paese come il nostro, ricco ma al contempo indebitato come pochi in Europa e tuttavia bisognoso più che mai di denari per i servizi sociali e dove nondimeno quasi l’intero spettro politico si dice d’accordo nell’aumentare la spesa degli armamenti per chissà quali conflitti. Il film tratta dell’ingranaggio depauperante dell’umanità tutta. Guarda dal basso verso l’alto.
Abbiamo detto che la necessità è il motore apparente. Ma ben concreto. La costante necessità. L’affanno. Quell’affanno concreto ed esistenziale che i Dardenne, figli della grande lezione del cinema di Robert Bresson (nel 2011 a Venezia vinsero anche il premio intitolato al regista), hanno rappresentato con la camera ansiogena ma etica sul corpo della povera Rosetta - Palma d’Oro a Cannes nel 1999 - un personaggio che in Belgio è diventato una figura quasi mitica per i lavoratori.
Nei precedenti film dei registi c’è già un po’ tutto, la loro filmografia è davvero come un’unica opera gradualmente ampliata a formare un solo grande affresco.
La solitudine (la canzoncina dell’infanzia che Tori si fa cantare da Lokita nel silenzio della notte, le cui parole in lingua etnica non venendo tradotte restano misteriose). Le molestie o le violenze sessuali che devono subire delle umili lavoratrici. Gli attori non professionisti che si mescolano a quelli professionisti fino a essere indistinguibili. Il passare da giovani uomini a giovani donne, da ragazze a ragazzi, da persone di pelle bianca autoctone a immigrate bianche dell’est Europa (Il matrimonio di Lorna, 2008, vincitore a Cannes per la miglior sceneggiatura) fino allo sfruttamento di immigrati clandestini provenienti dall’Africa messi in evidenza già in La promessa, il loro primo film importante (presentato nel 1996 a Cannes alla Quinzaine des Réalisateurs). Senza dimenticare il conflitto lacerante tra generazioni su visioni del mondo o etiche. I Dardenne guardano a tutti con eguale empatia, siano esseri umani di altre etnie o bianchi poveri o impoveriti. E gli sfruttatori possono essere un po’ dappertutto.
E infine non c’è mai niente di didascalico nella loro opera. Come in Tori e Lokita dove scorre con naturalezza la meccanica delle cose, e dove ogni attore restituisce con micidiale naturalezza la vita, bella o brutta che sia (di grande importanza è vederlo in lingua originale, se possibile). La dinamica umana, che suscita nello spettatore empatia verso i due protagonisti, si sovrappone poi a questa meccanica, l’una e l’altra formando il reticolo inestricabile della vita vera.
I Dardenne lavorano con finezza sui meccanismi del film noir (come già in La ragazza senza nome). Tori è il vero protagonista, davvero unico e non somiglia a nessuno, come gli dice Lokita a un dato momento. Aggiungiamo che Tori è come un topolino curioso che si intrufola dappertutto, ma anche saggio e furbissimo. Quasi il Topolino brillante detective dei fumetti: non dimentichiamo che Adolf Hitler vietò quel personaggio in Germania perché impaurito dal primo Topolino, quello di Walt Disney: sembrava un negro ma era intelligente e simpaticissimo, vispo e comunicativo. E nella canzone Alla fiera dell’est di Angelo Branduardi che lui e Lokita cantano per i clienti del ristorante, si parla guarda caso di un topolino comprato per due soldi all’interno di una catena che si autodivora.
Il “carico di armi che prosciuga la ricchezza e il lavoro di tutti i popoli” si fa sentire fortemente in questo film alto sull’infanzia rubata che tenta la sua resistenza. Uscendo dalla sua visione, Tori e Lokita non ci lascia più, al pari dei suoi due protagonisti.
Francesco Boille (Internazionale, 1 dicembre 2022)
È già lì, nel titolo, lo spunto etico e politico che ha dato vita all’ultimo film di Jean-Pierre e Luc Dardenne: Tori e Lokita, due nomi propri che condensano tutti gli sguardi, che sono al centro non solo di una storia, ma del desiderio di ogni spettatore di avvicinarsi ad essa, di esserne parte, di condividerla come una forma di necessario riscatto della memoria. L’origine del film è infatti un articolo di giornale apparso in Belgio qualche tempo fa, in cui si raccontava la storia di due persone scomparse, che facevano parte di un gruppo di migranti arrivati recentemente nel Paese. Due ragazzi di cui si perderanno per sempre le tracce. La loro storia rimarrà non raccontata, essi entreranno nel lungo, enorme elenco di esistenze senza nome, senza visibilità.
È da qui che parte l’idea del film: restituire una storia, un volto e un corpo a due esistenze che sono consegnate all’oblio. Non si tratta (non si può trattare) della loro vera storia, perché di queste due persone non sappiamo molto. Si tratta peraltro di una possibilità, di una storia che ricade nell’ambito del possibile; quel tipo di storia che il cinema può creare, reinventare, rendere visibile. Ecco allora nascere la storia di Tori e Lokita, un ragazzino di forse 12 o 13 anni e una ragazza leggermente più grande, che si fanno passare per fratello e sorella, ma il cui rapporto strettissimo nasce in realtà durante il lungo viaggio che dall’Africa li ha portati sino in Belgio, passando per la Sicilia, dove i due apprendono da una donna che li aiuta quella che diventerà la loro canzone preferita e che credono essere una antica canzone del luogo: Alla fiera dell’est di Branduardi. Due nomi propri, due storie che diventano una, come il legame tra un ragazzino e una ragazza, che si proteggono lungo tutto il viaggio. I due sono inseparabili, o vorrebbero esserlo: Tori ha già i documenti in regola (è stato riconosciuto come perseguitato), Lokita no, e tenta in tutti i modi di averli, per poter rimanere insieme a colui che ha scelto come fratello.
Due nomi, due storie, due riscatti necessari, ovvero la necessità di creare una memoria per volti altrimenti invisibili. Per i fratelli Dardenne questo significa decidere per la vicinanza dello sguardo, per una macchina da presa che sia vicina ai due personaggi, a Tori e a Lokita, che sia capace cioè di riscattare la loro invisibilità stando “con” loro, senza “diventare” loro, senza assumere il loro sguardo. Le inquadrature infatti si susseguono in modo da seguire, insieme o parallelamente i movimenti dei due giovani, gli scarti veloci e decisi di Tori e l’andamento più lento e incerto di Lokita, mentre intorno a loro, il mondo fa sentire la sua presa gelida: il cuoco del ristorante italiano a capo di una banda di spacciatori; il gangster africano che continua a chiedere soldi a Lokita in cambio del viaggio che le ha permesso di arrivare in Europa; la commissione che valuterà la ragazza per la sua richiesta di asilo; il complice del cuoco che porta la ragazza nel laboratorio in cui si produce la marijuana che il cuoco distribuisce in città (e che Tori e Lokita spacciano nelle strade); persino gli operatori sociali che aiutano i due ragazzi nel centro per richiedenti asilo.
Tutti i personaggi che circondano i due ragazzi sono visivamente sfuggenti; rare e brevissime sono le inquadrature che ne mostrano i volti. La macchina da presa si sofferma su di loro solo se è il movimento del ragazzo o della ragazza a permettergli di entrare in campo. Quel mondo, in fondo ostile o impotente, non entra mai in relazione con i due protagonisti: la loro solitudine e la loro necessità di stare insieme, di lottare e sopravvivere insieme, è sottolineata anche dall’esclusione di tutto il resto, che rimane se non fuori campo, almeno difficilmente visibile.
La macchina da presa segue i due personaggi senza mai divagare. Li lascia andare, vagare, scappare, camminare, correre, nascondersi, fare in fretta. E ogni volta si affanna a seguirli a mantenerli all’interno dell’inquadratura nonostante la loro velocità, i loro movimenti erratici. Loro, il loro essere “due”, essere famiglia senza legame di sangue, è il movimento che si situa al centro di tutto, del film come di ogni singola inquadratura. Il resto, anche ciò che li schiaccia o li divide, quello no, rimane fuori, appena visibile. Il classico raccordo del campo-controcampo scompare. Vediamo Tori parlare con la valutatrice che ha appena respinto la richiesta di asilo di Lokita senza che la macchina da presa si alzi per inquadrare il volto della donna. Vediamo il primo piano di Lokita ma rimaniamo con lei, mentre il suo interlocutore appena compare nell’inquadratura. Vediamo Tori correre in bicicletta e fermarsi perché i due trafficanti di corpi umani lo bloccano. Ma la macchina da presa rimane con lui, sul suo sguardo e le sue parole che non tradiscono colei che lui considera sua sorella. Al trafficante è concesso solo un breve momento, quando la macchina da presa con un rapido movimento lo mostra allo spettatore. La simmetria è negata, nessuno, mai, ha la stessa importanza dei due ragazzi. Solo loro possono essere veramente “due”.
Il “due” a cui i registi fanno riferimento è il due che unisce, è il germe, il nucleo originario di ogni collettività, di ogni “essere insieme”. Allo stesso modo vivono la loro esistenza Tori e Lokita, anche senza essere realmente fratello e sorella (ma scegliendo di esserlo nei fatti): il “due” per loro non è la struttura che separa, frammenta e poi unisce (appunto la regola del campo-controcampo); non è il confronto, lo scontro dialettico, il duello persino. È la scelta di essere insieme, quando il mondo ti espelle o non ti riconosce.
Ecco perché il controcampo non può essere dato nel film: quello che Tori e Lokita vivono sulla loro pelle è proprio lo squilibrio del potere, il loro essere soli, il loro essere messi da parte. Le inquadrature non possono equivalersi. Chi li sfrutta, chi li domina, li compiange, o li guarda con indifferenza non può essere come loro, non può avere gli stessi primi piani, non può essere alla loro altezza, all’altezza di uno sguardo che li accompagna. La loro storia può essere solo immaginata e quindi raccontata come tale. E questo è il gesto etico che fonda il film, il suo stesso esistere. Ridare un volto, sia pure di finzione a chi quel volto, quella visibilità non può più averla. Ma il gesto etico è alla base di un gesto politico, che è sempre nelle immagini, nel cinema. Ed è qui che si apre il finale del film, la sua secchezza, il suo découpage che non lascia scampo, ma che non abbandona i suoi personaggi, lasciando a Tori il compito dell’ultimo sguardo, dell’ultimo canto, prima che lo schermo torni nero, e l’oblio torni a rivendicare la sua priorità.
Daniele Dottorini (fatamorganaweb.it, 14 novembre 2022)
TORI E LOKITA
Si esce dall’infanzia senza sapere che cosa sia la giovinezza,
ci si sposa senza sapere che cosa sia l’essere sposati,
e anche quando si entra nella vecchiaia non si sa dove si va:
i vecchi sono bambini innocenti della loro vecchiaia.
Milan Kundera
Nevia ha 17 anni, vive con la nonna Nanà e la sorella più piccola, Enza. Poi c’è ’a zia Lucia, vicina di “casa” nel campo-container di Ponticelli in cui abitano, una prostituta e un’amica della nonna, all’occorrenza collega, quando le due anziane signore decidono di riscendere in campo, o meglio per strada, nel tentativo di risolvere i loschi affari di famiglia. E infine c’è la mamma morta, nella foto con i cerini sempre accesi sul comò della camera da letto di Nevia, Nanà e tutte le altre.
Nell’universo femminile di Nevia, opera prima di Nunzia De Stefano, gli uomini sono o dietro le sbarre, come il padre di Nevia con cui la ragazza non vuole avere niente a che fare, o in belle case comprate a suon di scarpe rubate in cui Nevia, per niente al mondo, vuole abitare: «È piccerella ancora, non ci pensa a ‘ste cose» si preoccupa Nanà di rassicurare il padre di Salvatore, giovane galeotto promesso sposo della ragazza ribelle. Ma più cresce e più Nevia, dallo sporco in cui abita (lei raccoglie spazzatura nel quartiere), si ostina a guardare il mondo con occhi puliti e riesce così a ritrovare una famiglia proprio in chi è senza casa: i nomadi del circo Orfei che le offrono un lavoro (accudire gli animali), una sedia a tavola e un posto nel mondo, anche se quello edulcorato dei numeri di prestigio, tra trapezisti, cavalli con criniere da pettinare e rinoceronti a cui lavare i denti.
Nell’universo femminile degradato da cui proviene, Nevia è ritratta da uno sguardo altrettanto femminile che ne delinea i tratti acerbi con sentita vicinanza (c’è qualcosa di biografico nella storia di Nevia/Nunzia) e la giusta distanza garantita dalla trasfigurazione favolistica di matrice zavattiniana (in cui si scorge l’eco dell’universo garroniano, produttore del film). In un’atmosfera onirica in cui, non a caso, si dorme tanto e ci si risveglia altrettanto, le figure femminili assumono infatti contorni fiabeschi: la prostituta nera che sembra “un alieno”, la zia eccentrica con la testa imbrattata di maschera o di mollette per i panni, la nonna che stende pennellate di trucco sulle rughe mentre l’amica si impaietta le cosce abbondanti.
Nevia è un’opera uguale a tante altre nel panorama italiano contemporaneo, per il racconto del percorso di formazione di un personaggio femminile adolescente - come lo è Gelsomina ne Le meraviglie (2014) di Rorhwacher, Fiore (2016) nell’omonimo film di Giovannesi, Agnese in Cuori puri (2017) di De Paolis, Maria ne Il Vizio della speranza (2018) di De Angelis, solo per citare alcuni esempi recenti -, e tuttavia è un film diverso da tutti gli altri, innanzitutto perché l’adolescente qui è senza madri né padri.
In particolare, per il racconto di formazione intriso di napoletanità, il film si ricollega ad altri due: Il cratere (2017) e Indivisibili (2016) ma, anche qui, se nel film di Luzi e Bellino il percorso della protagonista Sharon, di fatto figlia unica nel legame esclusivo col padre, era ostacolato da quest’ultimo, in quello di De Angelis le due sorelle Fontana, essendo siamesi, per staccarsi dai genitori, dovevano anche, letteralmente, separarsi da se stesse. In Nevia invece tutto si gioca su un piano orizzontale, è nel rapporto Nevia-Enza che emerge la possibilità del riscatto: nonostante la differenza di età e un prevedibile lato protettivo della maggiore sulla minore, è Nevia a farsi complice delle monellerie della più piccola (quando rubano l’iguana nel circo) ed è Enza a rubare i soldi a Salvatore, passando sopra il suo corpo inerme quando Nevia, per difendersi, lo stende a terra.
C’è, nel rapporto tra sorelle, uno scambio. E in quello scambio sta la forza, del film e della possibilità di felicità che questo racconta: nello sguardo simmetrico tra due sorelle, senza padri, senza madri, né loro sostituti (come ritroviamo in altri film dello stesso filone, nel ruolo di preti, insegnanti, psicanalisti, ecc.). Gli unici due personaggi adulti “buoni” del film, ‘a zia e il proprietario del circo non sono capaci di assolvere neanche a questo ruolo, segnati la prima da una condizione di solitudine (una bruttezza dell’anima che le ha impedito di costruirsi una famiglia sua), il secondo di infermità (quando Nevia scopre che è malato, l’uomo la allontana).
Non cadendo in trappole melodrammatiche e piuttosto cedendo a momenti comici che alleggeriscono la narrazione, l’andamento del film è quello che muove gli inizi di un romanzo di formazione (si vuole abbandonare il mondo a cui si appartiene per crescere), la forma simbolica anche della contemporaneità (come, per Moretti, lo è stata della modernità) perché, nel passaggio dall’infanzia alla vita adulta, racconta l’adolescenza, l’età che racchiude in sé il senso della vita, e di un mondo che cerca un suo senso nel futuro anziché nel passato.
E tra la forma (romanzesca) del film e il suo personaggio (Nevia) c’è un rapporto che si tiene ben in equilibrio: è un film che simula il senso di soffocamento di Nevia (le inquadrature molto strette, gli ambienti chiassosi e claustrofobici come il mercato o la discoteca) e i suoi tentativi di fuoriuscita (la corsa sul carrello, o le spinte sull’altalena). E poi c’è lo sguardo, quello femminile della regista, che non indaga i corpi ma scruta insistentemente i volti, avvicinandosi in primi piani, sdoppiando le immagini riflesse allo specchio delle donne che si truccano, guardandole di lato, ponendosi accanto alla sua protagonista, sin dalla prima scena, quella nel camion quando Nevia ha in braccio Enza e, anche di lato, la tristezza degli occhi di Nevia penetra lo schermo: «Mi hai mai chiesto come sto? Quanto mi manca mamma?» rimprovera a Nanà quando prova, maldestramente, a fare la nonna.
Questa Nevia che, nel suono ha qualcosa di lugubre della nenia (l’antico canto funebre femminile) ma già rivela la sua forza nella scelta del nome proprio come titolo (abbastanza inusuale nel panorama italiano) è dunque il ritratto, forte, di un tenace personaggio femminile (sorretto dalla prova d’attrice di Virginia Apicella) capace di trovare nello sporco della città che abita il pulito delle relazioni, negli animali che accudisce l’umanità che manca, nell’infanzia (della sorella) la sua maturità, nella morte (della mamma) la vita, nella forza la fragilità. E viceversa. E così è il film, come il suo personaggio, forte e fragile, nello stesso tempo, debole nella sua aderenza, eccessiva, all’immaginario favolistico del circo, e nella rigidità con cui ritrae personaggi maschili senza spessore.
“Qual è la differenza tra una puttana e una donna non innamorata?” chiede Nevia: “Nessuna piccirè, nella vita contano solo i denari”. Né la profonda sfiducia che abita la zia, né il cinismo scettico della nonna che, nella notte, taglia a Nevia un ciuffo di capelli non come rito di iniziazione ma per un dispetto egoista (lei non ce l’ha fatta e impedire alla nipote di fare di testa sua rende più sopportabile il peso del suo fallimento), possono aiutare Nevia: “Come mi posso salvare?” chiede Nevia ai grandi, ma i grandi del suo piccolo mondo non riescono ad illuminare il suo percorso.
Come la regista con il suo personaggio, così anche il personaggio la sua salvezza ce l’ha accanto. È nella sorellanza la salvezza, e il primo piano di Nevia su cui si chiude il film, il volto truccato (per il numero del circo) con quelle due lacrime nere sotto gli occhi che quasi riporta allo sguardo in macchina della Cabiria felliniana, è uno sguardo che, al contrario di quello, insiste, liberandosi in un sorriso, come la risata della sorella piccola si era liberata nel gioco sull’altalena.
È guardando il mondo alla stessa altezza, come nella scena in cui la più piccola è sul carrello della spazzatura mentre la più grande la spinge avanti, che, per Nevia ed Enza, la vita si lascia guardare davanti, lasciando dietro le colpe (dei padri), e rivelando che c’è sempre una possibilità di fare qualcosa di diverso con ciò che l’Altro ha fatto di noi.
di Nausica Tucci (fatamorganaweb - 7 settembre 2019)
Riferimenti bibliografici
F. Moretti, Il romanzo di formazione, Einaudi, Torino 1999
N. Tucci, Il ritorno del figlio. Gli eredi nel cinema italiano contemporaneo, in AA.VV., Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 35, Infanzia, Pellegrini, Cosenza 2018.
Nevia è una ragazza di 17 anni con un carattere forte e ribelle che vive nel quartiere Ponticelli a Napoli. Orfana di madre e con il padre in carcere, vive in un campo container con la nonna paterna Nana, con la sorella minore Enza e con la prostituta Julia. Svolge alcuni piccoli lavori particolarmente precari in un quartiere dove “nascere femmina, è una vera disgrazia”. I contrasti con la nonna e con boss del quartiere, assieme alla protezione che cerca per lei per sua sorella minore, portano Nevia a ribellarsi.
Anche il modo di vestire di Nevia evidenzia questo anticonformismo. Indossa spesso abiti sportivi probabilmente per nascondere la sua femminilità che vuole nascondere al quartiere. Il rapporto più intimo lo ha con una fotografia della madre defunta alla quale si rivolge nei momenti più difficoltosi. Gli unici rapporti amichevoli che riesce ad avere sono con la sorella Enza e la zia Lucia, la quale spesso la ospita nel momento in cui nella casa della nonna arrivano i clienti.
Una speranza la trova quando nel quartiere arriva una compagnia circense. Nevia, dopo un primo apparente disinteresse, inizia a lavorare per il circo. In questo nuovo ambiente Nevia ritrova una speranza e le opportunità che Ponticelli non le ha mai saputo dare.
I rapporti con gli artisti e con gli animali del circo sono diametralmente opposti rispetto a quelli che ha con Ponticelli. Nei momenti passati al circo, la vediamo nutrire e accudite gli animali come se fossero persone care, ha con loro quel rapporto di affetto che, all’infuori di pochi casi, non riesce ad avere con gli abitanti del quartiere nel quale è cresciuta. Questi nuovi rapporti le danno quella gioia che fino a quel momento non avevamo ancora visto sul suo volto. Vede in queste persone venute da fuori città una vera famiglia che, per diverse ragioni, non ha mai avuto. Vede in loro una possibilità di riscatto verso l’ambiente in cui è cresciuta e dal quale vuole uscirne.
La stessa regista Nunzia De Stefano (attrice e sceneggiatrice, Nevia è la sua opera prima), ha vissuto per dieci anni nei container della periferia di Napoli dopo il terremoto in Irpinia del 1980 e da giovane ha pure lavorato nei circhi, come racconta nelle sue note di regia: «È il periodo decisivo per la costruzione dell’identità e della personalità di un individuo, è anche il più controverso, e i ricordi della mia giovinezza appartengono proprio ai dieci anni vissuti in un container nella periferia di Napoli, quando il terremoto degli anni ‘80 costrinse la mia famiglia a sfollare in un campo improvvisato, in attesa di una sistemazione adeguata. I giorni diventarono mesi e i mesi anni, ma la casa popolare non è mai arrivata e abbiamo imparato così ad adattarci a quella situazione drammatica, cercando di ristabilire una quotidianità perduta e abituandoci a vivere dignitosamente anche con quel poco che avevamo. Nel frattempo, generazioni sono andate e venute, ma i campi container ancora esistono: si sono tramutati in un piccolo mercato immobiliare di serie Z che offre spesso un tetto ai rifugiati di altre sfortunate realtà.
Allo stesso tempo, però, credo sarebbe un limite ricercare solo nella mia autobiografia il valore di questa storia. Quello di Nevia è un racconto di formazione, la descrizione delle peripezie e dei tanti ostacoli che si frappongono tra una giovane adolescente di diciassette anni e la conquista di una libera e matura consapevolezza di sé. Il contesto rappresenta soltanto lo sfondo di una vicenda che spero riesca ad acquisire un significato universale. Nevia è una ragazza che, come tante sue coetanee, combatte contro un destino che sembra già scritto, dalla famiglia o dalla società: è una Cenerentola moderna ma senza principe azzurro, che cerca con caparbietà e risolutezza il proprio posto nel mondo.»
Per una parte Nevia quindi può essere considerato un film autobiografico, ma la regista dunque non ha voluto con questo film raccontare la propria storia, ma evidenziare le problematiche, sia generali, sia giovanili, in dei contesti molto complicati e difficili da vivere, dove comandano gli uomini e le donne devono sottostare ai loro ordini. É un film al femminile, ma anche universale, si centra per quasi la sua intera durata sulla protagonista, e attraverso lei ci vengono presentate le diverse complesse situazioni che si possono trovare in questi contesti.
Anche se stilisticamente diverso, possiamo associare il personaggio di Nevia alla Rosetta dei fratelli Dardenne. Entrambe vivono in miseri accampamenti, entrambe vogliono riscattarsi dalla vita che stanno vivendo sognando un’esistenza “normale”.
Dario Condemi
Regia: Nunzia De Stefano
Sceneggiatura: Nunzia De Stefano, Chiara Ridolfi
Fotografia: Guido Michelotti
Scenografia: Daniele Frabetti
Costumi: Massimo Cantini Parrini
Montaggio: Sarah Mcteigue
Musiche: Michele Braga
Cast: Virginia Apicella (Nevia), Pietra Pontecorvo (Nanà), Rosy Franzese (Enza), Pietro Ragusa (Guido), Franca Abetegiovanni (Lucia), Simone Borrelli (Salvatore), Gianfranco Gallo (Peppe), Lola Bello Durojaiye (Julia)
Produzione: Archimede Film/RAI Cinema
Distribuzione: Archimede Film
Italia, 2019
Durata: 86’
RICONOSCIMENTI
In concorso alla 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nella sezione Orizzonti.
Nastri d’Argento 2021: candidatura Miglior Regista Esordiente
NUNZIA DE STEFANO
(Italia/Napoli)
FILMOGRAFIA
AMANDA – QUEL GIORNO D’ESTATE
C’è il futuro e il passato nel presente di Amanda.
Amanda solo molti anni dopo avrà compreso che una partita di tennis non è mai finita fino all’ultima palla giocata e che, soprattutto, la vita non finisce mai di stupire e ci indica da sola dove trovare l’energia per superare i traumi dopo una tragedia, dopo una terribile prova che muta radicalmente il nostro mondo, stravolgendo ogni coordinata della quotidianità che si vive.
Il rischio che Mikhaël Hers (già regista di Ce sentiment de l’été), nel realizzare un film in fondo semplice come Amanda, decide di prendere non è trascurabile.
Sullo scivoloso terreno del terrorismo Hers decide di guardare agli effetti collaterali senza entrare nel merito né nella complessità del fenomeno alla ricerca delle cause. Piuttosto il regista parigino prova a catturare l’attimo storico in una prospettiva futura, senza guardare alle conseguenze sociali che il gesto folle di un omicidio collettivo comporta. Amanda piuttosto che un film sul presente è dunque un film sul futuro, dove i sentimenti che lo percorrono diventano cura necessaria a ricostruire il tessuto vitale attorno alle gravi ferite che si sono aperte nella vita di Amanda e dello zio David che le farà da tutore.
Da tempo la cinematografia francese ha dimostrato di sapere utilizzare molto bene le dinamiche familiari, basti pensare alle fitte relazioni dei film di Guédiguian o a certa filmografia di Ozon ovvero a film più recenti come ad esempio I figli degli altri di Rebecca Zlotowski o agli estremi risvolti di una maternità conflittuale come in Saint’Omer di Alice Diop o, ancora ai risvolti psicologici che si possono leggere in un film recente come L’accusa di Yves Attal.
È proprio dentro la novità dei rapporti familiari larghi e insoliti che il film di Hers si sviluppa, in quella assidua scuola quotidiana per entrambi i protagonisti, dentro la quale ritrovare le ragioni del futuro con quell’insegnamento del passato necessario retroterra di emozioni e sentimenti. È in questa stessa prospettiva che Hers lavora sui dialoghi sapendoli rendere credibili ed efficaci. Va riconosciuto il merito a questa cinematografia di avere coltivato negli anni un’attenzione particolare alla scrittura dei dialoghi, non crediamo in fondo che si tratti di una scuola, ma sicuramente di una tradizione che si rinnova ancora in questo presente. Dopo le tracce di un passato nobile (Truffaut, Rohmer, veri inventori di dialoghi e poi gli altri che sono seguiti anche nel cinema più recente come il Philippe Le Guay di Moliere in bicicletta e Le donne del 6° piano - entrambi proposti nelle rassegne del Circolo “Zavattini” - e molti altri) film come Amanda, ma anche quelli citati in precedenza come Saint’Omer ad esempio, vivono sulla sensibilità delle parole, sulla verbosità asciutta del testo, sulla essenzialità della parola. Così come i dialoghi nell’aula giudiziaria nel citato L’accusa o nel non dimenticato - e già visto nell’ambito della rassegna 2017 - La corte di Christian Vincent, non mancano di svelare le psicologie dei personaggi, il loro retroterra culturale, il loro profilo sociale.
I dialoghi di Amanda lavorano su quello stesso profilo minimale sul quale il film si assesta, ma non per questo lo sguardo di Hers è meno acuto nel restituire allo spettatore il senso di un presente in funzione di un futuro ancora sconosciuto, ma tutto da costruire.
È un’ennesima complessa ricostruzione che il film ci propone - ne abbiamo vissute molte al cinema di ricostruzioni di una vita e di una personalità - attraverso gli occhi e i desideri di una bambina che, all’improvviso, perde il principale punto di riferimento e deve, malgrado tutto, costruirsene altri, immaginando una partita da giocare fino alla fine. David e Amanda ridefiniscono il concetto di famiglia che resta fondato ma solo in parte sul legame genetico, quanto piuttosto sui postulati sentimentali che i due provano a condividere. La piccola Amanda con le sue esigenze infantili e lo zio, ventiquattrenne, con l’invenzione quotidiana di questa nuova paternità caduta tra capo e collo nella sua vita, in questa prospettiva diventano i protagonisti di un racconto più profondo che non coinvolge solo il tema eterno della elaborazione del lutto, ma piuttosto l’instaurazione di regole di convivenza che debbano superare i soliti steccati di un rapporto genitoriale per gettare le fondamenta di un nuovo ordine familiare in funzione dei nuovi presupposti sui quali si è generato. Una prospettiva non troppo lontana dalle teorizzazioni familiari complesse alle quali ci ha abituato Hirokazu Kore’eda (una delle quali completerà questa rassegna) e che sembra, complessivamente, vogliano ridisegnare le mappe familiari puntando al peso dei sentimenti, piuttosto che ai legami di sangue. Amanda non viaggia su questi estremi confini sui quali, invece, ritroviamo le storie del regista giapponese, ma sicuramente, nel livello subliminale sul quale ogni film lavora, sa imbastire un racconto nel quale la componente di una familiarità diversa non solo è possibile, ma diventa necessaria in una più complessiva mutazione sociale alla quale si assiste.
In questo passaggio, ma non solo in questo, il racconto di Hers sa trasformarsi in una storia più collettiva, raccontando il microcosmo familiare e la tragedia che fa da scenario e fondale sul quale si muovono David e Amanda, ma con lo stesso smarrimento con il quale il macrocosmo sociale vive la paura e il senso di un oscuro futuro. Ma allo stesso tempo, il film di Hers ha il pregio di sapere indagare con estrema leggerezza - ed è forse questo il suo pregio maggiore - sul senso del vuoto dell’assenza, del vuoto delle parole mancanti e di rimarcare, quanto di questa assenza si renda evidente nei piccoli gesti in tutto ciò che diamo per scontato, in quella vita quotidiana che dimentichiamo in fretta apparentemente senza peso in una sorta di “usa e getta” connaturato alla stessa fluidità del quotidiano.
Il film di Hers forse potrebbe trovare accuse di sentimentalismo, di buonismo a tutti i costi. Ma questo racconto a prima vista legato alla languida poesia di un’orfanella, traduce, al contrario e anche più largamente, il senso di un futuro incerto e ci obbliga a chiarire quali siano le prospettive di un’infanzia già oppressa, affamata e derubata. Il futuro che implica il presente dei conflitti bellici o di quello che ci disegnano le terree previsioni dell’assetto di un ambiente via via sempre più inospitale.
È per tutte queste ragioni che Amanda smette di essere un film sulla contemporaneità per trasformarsi in una riflessione sul futuro e sulla paura, sulla fiducia, ma anche sull’assenza, sull’insicurezza, sul controllo di Polizia anche al parco. La riflessione di Hers, in fondo è semplice, ma non semplicistica e non risolve il problema (come potrebbe d’altra parte?), ma prova a riflettere per offrire una forse minimale - ma né semplice né scontata - risposta per una bambina di sette anni in quell’assenza improvvisa e in quei sentimenti che devono essere altrove indirizzati nel ricordo di un passato mutato in un presente diverso senza spiegazioni, ma con molte altre domande.
AMANDA - QUEL GIORNO D’ESTATE
Amanda, Quel giorno d’estate il titolo utilizzato per il nostro paese, è un film che racconta la storia di un giovane ragazzo parigino di nome David, orfano di padre e abbandonato dalla madre, che passa le sue giornate impegnandosi tra lavori saltuari e prendendosi cura con evidenti difficoltà organizzative della sua amata nipotina. La sua famiglia sono sua sorella Sandrine, un insegnante d’inglese di liceo e la piccola e dolce Amanda di sette anni, cresciuta da sola e con il suo aiuto, perché mai riconosciuta dal padre. Le loro vite procedono serene, nei ritmi costanti e veloci delle consuetudini di una metropoli, fino a quando un fatto epocale irrompe nelle loro vite stravolgendone l’orizzonte e quelle poche certezze su cui poggiavano le loro esistenze. La vita costringerà David a crescere immediatamente, trasformando la sua spensieratezza giovanile, a tratti infantile e senza un’idea di futuro, nella tragica certezza di doversi rialzare velocemente per prendersi delle responsabilità che condizioneranno il suo cammino e quello della piccola Amanda, avvicinandosi mai come prima l’uno a l’altra, dovendo affrontare da soli le conseguenze della perdita di Sandrine.
Mikhaël Hers, regista e sceneggiatore francese al suo sesto lungometraggio, ha presentato questo film alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2018 e ha vinto il Gran Premio per la miglior sceneggiatura al Festival Internazionale di Tokyo sempre nello stesso anno. In patria verrà apprezzato per quest’opera, soprattutto tra i giovani, facendo parlare di sé grazie alla rievocazione delle ferite che gli attentati del 2015 hanno lasciato nei cuori dei parigini.
Il cast è parte integrante della riuscita del film, composto da giovani attori, su tutti la bambina Isaure Multrier in cui troviamo la capacità per nulla scontata di caricarsi sulle spalle alcune delle scene decisive, il promettente Vincent Lacoste (David) e Stacy Martin (Lena), nei panni di una ragazza proveniente dalla provincia ed insegnante di pianoforte di cui David si innamorerà, costruendo con lei una relazione profonda. Nel complesso troviamo in loro la capacità di creare quella giusta empatia con il pubblico, frutto di un lavoro concentrato sul quotidiano dei protagonisti, mettendo a fuoco quei gesti che sono le conseguenze del loro vissuto.
Di fatto l’atmosfera, di un’adorabile dolcezza che ci conduce nell’intimità di cuori afflitti, immedesima lo spettatore in questo tempo sospeso, in cui l’elaborazione del lutto diventa una strada solitaria fatta di lunghi silenzi, solamente a tratti interrotti dalla cognizione del dolore per l’inaccettabile perdita. Dai toni malinconici dove tutto si esprime sotto la superficie delle emozioni della vita, la narrazione si trasforma con discrezione col tempo, crescendo tra la prima e la seconda parte, alla ricerca di quella serenità perduta e riuscendo a toccare le corde dell’animo umano più profonde, accompagnandoci con una costante tenerezza e una sottile finezza dei particolari delle relazioni senza mai cadere in banalità descrittive, portandoci per mano dall’oscurità di una Parigi spettrale e impaurita alla luminosità di un pianto che libera miracolosamente una vita al debutto. Il regista ci vuol trasmettere il senso di smarrimento in cui ognuno di noi potrebbe trovarsi dinanzi alla complessità degli eventi della vita che portano a dei cambiamenti improvvisi ed inaspettati, scandendo il ritmo della sofferenza, coi tempi di una lacrima che lentamente scivola sul viso, tra rumorose assenze e sogni interrotti, ma con un desiderio innato di riaprirci alla vita da alimentare e comprendere col tempo per cercare la forza di ricominciare, invitandoci ad uscire dal nostro perimetro, proprio come faranno David ed Amanda che solamente slegandosi dall’idea di vita che conservavano per loro stessi potranno ritrovarsi.
Negli ultimi anni pochissimi film sono riusciti a descrivere così magistralmente il concetto di ricostruzione, con semplicità ed eleganza, esprimendo un’immagine radiosa e commovente senza la pretesa di esserlo, evidenziando così i dettagli dei sentimenti in modo minimale e profondamente rispettoso, trasformando un evento luttuoso in un inno alla sopravvivenza e all’amore, con un lungo primo piano in chiusura del film tra i migliori del cinema francese contemporaneo.
Probabilmente non a caso Mikhaël Hers ha scelto come nome della protagonista proprio Amanda, che sta a significare “colei che deve essere amata”, anche quando sembra impossibile, dove tutto sembra remare contro, nonostante tutto un po’ come la vita, perché con la sua grazia questa pellicola invoca sensibilità e regala speranza.
Cast: Vincent Lacoste (David Sorel), Isaure Multrier (Amanda), Stacy Martin (Léna), Ophélia Kolb (Sandrine Sorel), Marianne Basler (Maud Sorel), Jonathan Cohen (Axel), Greta Scacchi (Alison), Nabiha Akkari (Raja), Elli Medeiros (Eve), Claire Tran (Lydia), Bakary Sangaré (direttrice della Maison des Enfants), Zoé Bruneau (assistente sociale), Christopher Koderisch (giocatore di tennis)
Produzione: Nord-Ouest Productions, Arte France Cinéma, Pyramide Films
Distribuzione: Officine Ubu
Francia, 2018
Durata: 107’
RICONOSCIMENTI
In concorso alla 75. Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (2018), sezione Orizzonti.
César 2019 nomination: candidatura miglior attore a Vincent Lacoste, candidatura migliore musica a Anton Sanko.
Gran premio per la miglior sceneggiatura al Festival Internazionale di Tokyo
MIKHAËL HERS
Francia/Parigi, 1975
FILMOGRAFIA
2006 Charell
2007 Primrose Hill
2009 Montparnasse
2010 Memory Lane
2015 This summer feeling
2018 Amanda
2022 The passengers of the night
Alija è un ragazzino bosniaco costretto, a causa della guerra, ad abbandonare il suo villaggio. Quando sarà ormai cresciuto e sarà anche padre di due figli, farà il minatore. Nella sua memoria resterà la guerra che ha letteralmente dilaniato un Paese intero e oggi continua ad essere ombra cupa sulla sua vita. È il ricordo della sorella Mirsada, morta nel genocidio perpetrato contro la sua gente nel villaggio d’origine a non dargli pace.
Oggi il suo presente è di nuovo in bilico, la crisi incalzante mette in forse il suo posto di lavoro. Sarà incaricato di ispezionare una miniera chiusa da anni, ma un altro orrore lo attende in quelle profondità e la sua scoperta diventerà scomoda per le autorità del luogo che hanno fretta di chiudere la vicenda e seppellire per sempre un pezzo di storia che giace dimenticato in fondo a quei pozzi.
La regista e sceneggiatrice slovena Hanna Slak, qui alla sua prima prova nel lungometraggio, sa costruire un dramma in crescendo nel quale, intersecando la recente storia dei Paesi balcanici, con quella meno recente della seconda guerra mondiale, esalta il ruolo del suo protagonista che vive e combatte affinché quel “restare umani”, non sia solo uno slogan, ma una ragione di vita. Il realismo concreto del film finisce con il riflettere la verità dei fatti sui quali è fondato e che hanno visto come protagonista della vicenda il vero minatore Mehmedalija Ali che come il personaggio del film perse tutti i parenti maschi nella strage di Srebrenica del 1995. Gli salvò la vita l’essere già emigrato in Slovenia. La scoperta che fece e che coinvolgeva direttamente la storia dell’ex Jugoslavia e oggi della Slovenia, testimoniava un altro genocidio commesso sui profughi sterminati dai partigiani di Tito.
La storia e la memoria sembrano sommergere il film condensando, in quell’accentuato e imprescindibile realismo che lo avvolge, il disagio del presente davanti alle colpe che la storia distribuisce. Alija si sente responsabile, ma anche colpevole della sua stessa sopravvivenza ed è questa l’angoscia che quotidianamente sembra letteralmente seppellirlo. Ci accorgiamo che Il ricordo sembra avere un peso che si specifica in una misura personale e in una collettiva, condivisa che in questa prospettiva fatica ad essere accettata. La miniera, con i suoi cunicoli, le trappole, l’angoscia della costrizione e di un buio viscerale, diventa emblema e simbolo dello sprofondare nel proprio passato, dello scavo incessante alla ricerca di una via d’uscita, di una riconciliazione che sia riscatto personale ed emendazione di colpe. La necessità che Alija sente - e tutti gli Alija che in lui si riconoscono - è quella di dare pace al passato dal quale ancora oggi ci giunge l’eco di quella innocenza ferita e sanguinante che silenziosamente, ma profondamente, segna ancora il presente avvolgendo la sua e le nostre vite.
Hanna Slak sa restituire l’inarrestabile inquietudine del suo protagonista, che mostra nella intensa interpretazione di Leon Lučev, le inguaribili ferite che lo segnano ma anche la sua salvezza che avviene con l’immergersi reale e metaforico nella miniera, rappresentazione della coscienza nella quale ritrovare il suo passato, per una pacificazione che però non trova adeguato riconoscimento nel sentire collettivo che non accetta ciò che il minatore ha scoperto in fondo a quella miniera. Al contrario di Alija, ciò che si vuole è invece il seppellire il passato, fare muro verso la memoria che diventa luogo inaccessibile, ma anche questione centrale nel rapporto tra passato e presente, in quelle ferite lasciate aperte che germinano con frutti malevoli nei nostri corpi sociali.
Hanna Slak, come accade ormai di frequente nelle storie che diventano soggetti per i film di quell’area geografica - come si diceva - immerge il suo film in un realismo lineare, quasi documentaristico dal quale è difficile astrarsi e che per questo diventa elemento ineludibile per ogni ragionamento che riguardi i temi e la struttura di queste opere. La necessità sembra essere quella di offrire una immediata riconoscibilità, di non doversi staccare da una quotidianità protettiva, domestica, intima e anche generosa di sentimenti, soprattutto familiari. Così accade anche in Il segreto della miniera, che ha il pregio di fare rifluire nella figura del protagonista il carico smisurato della vicenda di cui si trova ad essere protagonista. Nella realtà Mehmedalija Ali nelle sue ricerche, durate un paio d’anni, ha ritrovato in fondo ai pozzi della miniera ormai abbandonata, circa quattromila corpi compresi quelli di moltissimi bambini. È proprio davanti a questo orrore, che non poteva che fare correre il pensiero al suo villaggio, a quella spaventosa strage di Srebenica nella quale il 25 luglio del 1995 furono uccisi circa 8000 persone e che vide il vero Alija salvarsi per un puro caso che divenne anche la ragione del suo profondo senso di colpa. È qui che il film diventa omaggio silenzioso e personale, tutto condensato nella pensosa figura del protagonista, a quella ferita di immense proporzioni che ancora non può trovare guarigione nella mente di chi l’ha vissuta, nelle mente di chi, come l’operaio bosniaco, può ancora essere testimone di quella strage che avvenne nel cuore di un’Europa sempre più moderna, ma anche sempre più colpevolmente distratta e sorda verso il silenzio di tutti quegli innocenti che dentro i suoi confini hanno trovato una morte ingiusta e violenta.
Il cinema non può fare molto e, forse, in fondo non gli spetta nemmeno fare molto, ma il film di Hanna Slak, con la distribuzione di Cineclub Internazionale, si fa racconto dell’operazione di purificazione compiuta da Mehmedalija Ali sapendo mettere in scena con sintesi solo appena, a volte, un po' eccessiva, le fasi di questo complesso processo che dal riconoscimento della colpa arriva alla sua emendazione e alla riconciliazione con la storia del proprio pesante passato.
È in questa dimensione che il piccolo film sloveno si fa intenso, sicuramente doloroso nell’accidentato percorso di Alija, ma decisivo nell’accettazione finale del passato, nella consapevolezza delle proprie radici per trasformare al meglio il presente che ci è dato.
Tonino De Pace (pubblicato su sentieriselvaggi.it)
Titolo originale: Rudar
Regia: Hanna Slak
Interpreti: Leon Lučev, Marina Redž, Zala Djuric, Boris Cavazza, Maj Clemenc, Lara Andrejević
Slovenia, 2017
Distribuzione: Cineclub Internazionale
Durata: 103’
HAMMAMET di Gianni Amelio
In L’autunno del patriarca, romanzo del 1975 che il genio creativo di Gabriel Garcia Marquez diede alle stampe dopo il grande successo del precedente Cent’anni di solitudine e con il quale intendeva affrancarsi da questo sia per intenti sia per scrittura, lo scrittore colombiano ha inventato la figura di un despota, ormai isolato dal mondo, attorniato da uno stuolo di fedelissimi adulatori. Nel giorno della sua morte i cittadini irrompono nel palazzo e scopriranno i luoghi da dove il dittatore amministrava il suo potere incontrastato. Il personaggio del romanzo non ha nome ed è chiamato il Presidente.
…ho sempre creduto che il potere assoluto sia
la realizzazione più alta e più complessa dell’essere umano
e che per questa ragione riassuma forse ogni sua grandezza e miseria.
Gabriel Garcia Marquez
… bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola,
e non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi,
se non ci allontaniamo da noi stessi…
José Saramago
Il romanzo è il racconto di un crepuscolare declino, di un potere ormai offuscato, perduto in una irrimediabile solitudine e solo la morte potrà restituire al dittatore il volto umano del potere, la morte che, come insegnava Pasolini, crea il montaggio definitivo della vita. Hammamet, il film di Gianni Amelio, che tra vero e falso riscostruisce gli ultimi mesi della vita di Bettino Craxi, ha molte affinità con questo straordinario e sperimentale romanzo di Marquez. Innanzitutto in questa specie di anonimato che spinge verso una interpretazione universale del personaggio protagonista del film.
Il protagonista, un politico malato e rabbioso, vero leone in gabbia, consapevole delle sue colpe, che amministra ancora un potere magnetico sulle persone e, nonostante tutto, è ancora in grado di impaurire e quindi di essere degno di rispetto, magari forzato e non autentico, ma ancora oggetto di una considerazione che proviene dalla sua storia, non ha nome, è chiamato “il Presidente”. Nella sua villa-fortino di una Tunisia vera, ma scenario e fondale della tragedia, il Presidente vive la sua malattia, il suo calvario personale, attorniato dalla famiglia, la figlia Anita, la moglie rediviva dopo anni di separazione e di indifferenza, a volte il figlio, che vive in Italia, succube e vittima della gigantesca presenza del padre.
Dentro tutto questo c’è il recente passato fatto di storia politica italiana, i processi, i giudici, le confessioni, le verità mai dette, l’incapacità di mantenere relazioni amichevoli come una specie di prezzo da pagare in cambio di un potere incontrastato. Vincenzo, l’amico operaio diventato un suo fedelissimo e ora suo contestatore, suicida per non pagare le colpe di una connivenza. Fausto il figlio di Vincenzo, schiacciato dalle colpe del padre e accusatore del Presidente che lo ospita nella sua villa, non per magnanimo comportamento, non per ricambiare la benevolenza del padre, ma per utilizzare la sua “ingenuità”, lasciare un testimone della sua verità e Fausto, oppresso da queste confessioni non ha futuro, non ha speranze.
C’è, in tutto questo, lo sconforto di una silenziosa contemplazione della dissoluzione, di una centralità che non c’è più, che non lo riguarda più. È perfino finita la curiosità morbosa dell’uditorio, non ci sono più i giornalisti dietro la porta ad attendere, ansiosi, le notizie del Presidente malato. Un Presidente che ha il volto (ir)riconoscibile di Pierfrancesco Favino, genio di mimetizzazione e vero camaleonte dello spettacolo che dopo il Buscetta di Bellocchio, compie un altro capolavoro d’attore nella sua trasformazione fisica, vocale e gestuale e perfino nelle posture, regalando l’originalità naturale del personaggio attraverso quelle forme che sembrano restituire la nitidezza della contemporaneità. Amelio ripercorre comunque non la storia d’Italia degli ultimi anni, Amelio fa il regista e ad un regista non può essere chiesto di essere né uno storico, né un commentatore politico e Hammamet non è un film, come si diceva un tempo, di impegno civile, non è neppure una biografia, né parziale, né limitata nel tempo e si sbaglia perfino a chiamarla ricostruzione di un periodo.
Hammamet si inserisce perfettamente nella cinematografia del regista calabrese e costituisce un ulteriore tassello di quella lunga marcia che l’autore va facendo da quando è uscito il suo primo film, un po’ come per Clint Eastwood, il suo cinema ha sempre costituito una ricerca della e sulla figura paterna, amorevole e sbagliata, in fuga e malata, sola e disperata. Da sempre il suo cinema, più antico o più recente, ha ruotato attorno a questo tema che Amelio ha affrontato sotto varie e mutevoli prospettive, alla ricerca di una soluzione, alla ricerca di risposte alle sue domande, alla ricerca di una figura ideale che possa chiudere il cerchio e considerare conclusa la ricerca. Se scorriamo la sua filmografia il tema del padre è una costante e Hammamet ne costituisce un altro punto d’arrivo. Quanti padri in questo film: il Presidente è un padre, ma anche Vincenzo è un padre, poi c’è il padre del Presidente che è Omero Antonutti, il padre già padrone per antonomasia, forse qui alla sua ultima apparizione. Il movimento ellittico, quasi un’orbita, che Gianni Amelio compie attorno alla figura del suo protagonista è posta in relazione alla finalità di scoprire l’origine della paternità mancata del nostro Paese con la consapevolezza dell’oggi.
Non c’è rabbia nel cinema di Amelio, non c’è più da Lamerica, altro film nel quale la ricerca di un padre resta un sottotesto per una nazione intera, ma soprattutto idealmente ritrovato, per i due faccendieri senza scrupoli, in Spiro. Un altro personaggio che sta per chiudere l’esistenza nella più assoluta e dimenticata solitudine, in fondo così vicino, nonostante tutto, a questo Presidente che vive in Tunisia che tra agiatezze e possibilità economiche vicino alla fine della sua vita terrena nell’angosciosa solitudine che il potere gli ha consegnato. E allora Hammamet per proprietà transitiva diventa un film sul potere (paterno), una ampia e meditata riflessione sul potere e sul suo prezzo, sul valore del potere nel mercato della politica. Un bene immenso fino a quando ne gestisci la borsa, oggetto di una svalutazione assoluta e quindi un bene del tutto privo di valore, quando quei cordoni restano chiusi. Diverso, invece, il valore sentimentale della paternità familiare che va ben oltre il tempo effettivo della vita, un valore che resta solido nel tempo e non conosce svalutazione.
L’incontro tra il Presidente e il padre sul tetto del Duomo di Milano non è solo wendersiano, laddove lo sguardo si fosse potuto allargare sulla amata città lombarda, ma sintetizza il tragitto e il transito, l’irredimibilità delle colpe, ma anche la solidità dei sentimenti paterni. Amelio ha voluto essere anche padre ed è su questa controversa figura che il suo percorso artistico trova, da sempre, la soluzione alla naturale inquietudine dell’artista. La tenerezza, Le chiavi di casa, Ladro di bambini, Così ridevano, Colpire al cuore, quanti padri hanno popolato le sue immagini e quante forme ha assunto la sua riflessione e Hammamet, senza diventare l’approdo definitivo, vive in questa dimensione e non intende confrontarsi con la storia, e se lo fa ciò accade sempre nell’ottica di una paternità sbagliata, non in quella di un’analisi politica del tempo, non in funzione della storia, non in rapporto ad una interpretazione storico-politica-sociale degli anni ’90. Non è questo il compito che Amelio si è dato. La figura di Craxi è il grimaldello per entrare in un privato inaccessibile in cui domina la gigantesca e contrastata figura di un politico con molte ombre e poche luci, un politico che resta un padre nella sua solitudine, in un finale di partita che prescinde da ogni vera o presunta ruberia, da ogni intrigo di potere, da ogni sogno infranto e da ogni sguardo della storia. Amelio ha raccontato la solitudine di un padre che si incrocia con la solitudine della fine del potere, uno sguardo all’isola, mentre l’isola si allontana.
Tonino De Pace (pubblicato su Diari di Cineclub n.80)
Regia: Gianni Amelio
Interpreti: Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Renato Carpentieri, Claudia Gerini, Giuseppe Cederna, Federico Bergamaschi, Roberto De Francesco, Omero Antonutti, Adolfo Margiotta, Massimo Olcese
Distribuzione: 01 Distribution
Italia, 2020
Durata: 126’
Se sono dette tante, prima di vedere il film e altre nell’immediatezza della sua uscita. Ne hanno parlato i politici, ne hanno parlato le trasmissioni TV. Tolo tolo di Checco Zalone, che già nel nome d’arte cela, ma rende anche esplicito, il suo fare spettacolo attraverso una comicità rustica e popolare, ma efficace, diretta nella sua semplicità articolata, è diventato un fenomeno nazionale, un evento da prima pagina, preceduto da un’attesa spasmodica che si è fatta evidente con le proiezioni notturne nella mezzanotte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio. Forse il compito è quindi quello di provare a capire cosa ci sia in tutto questo clamore che finisce, con l’essere, inevitabilmente sproporzionato, rispetto al fatto in sé: l’uscita di un altro film che possa permetterci di riflettere attraverso la comicità o comunque attraverso il divertimento (o anche evitare di farci riflettere), su un tema che tutti ci riguarda, sul quale si fa un gran parlare e dentro il quale si annidano spesso luoghi comuni, soluzioni improvvisate, visioni parziali e tutto il resto di un armamentario che conosciamo. Non pensiamo che Zalone, o meglio, Medici, ritenga di avere in mano le soluzioni per rimediare ai problemi dell’emigrazione, forse vuole solo dire la sua e lo fa come sa farlo meglio. Sicuramente l’autore - che scrive la sceneggiatura in collaborazione con Paolo Virzì - ha solo voluto, attraverso lo strumento della comicità, che per sua natura veicola i messaggi molto più rapidamente che altre forme di spettacolo a più lenta conduzione, innescare quel meccanismo che è proprio dell’umorismo e cioè quello del paradosso come passepartout per entrare in un mondo fatto di una inafferrabile complessità che per sua natura non è terreno di coltura della risata pena il politicamente scorretto. Zalone prova a ridurre lo scenario ad una dimensione più accessibile per potere mettere in scena pregi e difetti, manie e peccati di un italiano che resta sempre medio e mediocre come già lo erano i personaggi interpretati da Alberto Sordi.
Lo strumento della comicità, per quanto da lunghissimo tempo utilizzato, risulta sempre efficace poiché ribalta i termini della discussione, rovescia i criteri di giudizio e le leggi che regolano la convivenza. È lo stesso meccanismo che utilizza, in modo più estremistico e per questo quasi nonsense, Albanese con il suo Cetto Laqualunque campione di trasgressione e di aperta violazione della legge che nel suo mondo diventa la disciplina della convivenza. In altre parole il negativo di una immagine che fa risaltare, per ragionamento a contrario, il suo positivo. Zalone è della stessa scuola, ma con un pensiero diverso, un differente approccio. Il suo personaggio agisce sempre dentro le coordinate di una realtà assolutamente riconoscibile e contemporanea, diversamente da quella aumentata e iperbolica di Cetto, così era in Cado dalle nubi, così in Quo vado? e così continua ad essere in Tolo tolo. Zalone-Medici ha bisogno che la sua sia una realtà vera, nella quale lo spettatore si possa riconoscere poiché, altrimenti, le sue pasquinate non avrebbero lo stesso effetto.
I personaggi da lui interpretati sono pienamente calati dentro la deformazione corrotta della realtà e ragionano e agiscono secondo differenti criteri, privi delle sovrastrutture del pensiero, istintivamente, poiché l’operazione di Zalone in questo film e, mutati mutandis, negli altri, è quella di denudare il suo protagonista, renderlo visibile così com’è, asservito alle leggi del potere, asservito anche alla elusione delle leggi, asservito alle mode e alla pubblicità. Checco non fugge in Africa per protesta, ma per non pagare lo Stato e i suoi creditori. Se fossimo nella realtà sarebbe un’altra indagine delle Iene alla caccia di un altro evasore. Zalone ha bisogno di essere riconosciuto e riconoscibile dai suoi spettatori, ha bisogno che lo sentano uno di loro o quasi come uno di loro. Se le stesse storie fossero ambientate in quella realtà iperbolicamente diversa e contraria (come fa Albanese, per intendersi) il suo personaggio e la sua comicità perderebbe di mordente poiché la sua comicità nasce, come quella di Sordi, dal mettere in scena la mediocrità attraverso la codardia, la raccomandazione per il posto fisso.
Il suo personaggio è, paradossalmente, dunque più vicino a Fantozzi che a Cetto Laqualunque. Vi è una dominante che avvicina i pensieri di questi due personaggi smarriti. Poi, sicuramente nei personaggi del regista pugliese non vi è quella dignità dell’umiliazione che ha fatto grande e tragico Fantozzi, non vi è l’imbarazzo fantozziano patetico e mortificato, succube di ogni dominio, non vi è la drammaticità della solitudine, ma vi è quel desiderio di manifestare le debolezze, alcune piccole virtù. Soprattutto non vi è la volontà di un dramma più universale, dove i personaggi di Zalone restano e funzionano perché italiani. Oggi come allora riconosciamo in queste maschere da commedia dell’arte, pezzi di questo nostro Paese, ne ridiamo, ma sappiamo anche che in quelli larga parte della nostra collettività ci si specchia.
Il cinema di Zalone per tutte queste ragioni e per le altre che da sempre accompagnano la commedia natalizia, ha creato delle aspettative e fino ad oggi è stato un evento mediatico nel quale la gente, molti media, hanno cercato con affanno spasmodico un “talento” che fosse capace di prendere in mano la situazione sempre difficile del cinema italiano. Il regista e il suo personaggio, sovrapponibili nella loro dualità, diventano nell’immaginario una specie di uomo solo al comando, un po' come succede in politica. Zalone, da parte sua, fa il suo onesto mestiere e non crediamo che egli pretenda di scrivere pagine memorabili o abbia il desiderio di diffondere opinioni inconfutabili. In Italia quest’anno sono usciti circa duecento film e Tolo tolo è solo uno di questi.
Ma poiché il cinema è anche spettacolo, non vi è dubbio che Zalone abbia in mano il talento giusto per diventare un intelligente uomo di spettacolo che intuisce i meccanismi e sa cogliere quell’angolo buio che invece va illuminato. Come sa cogliere i tempi e i modi per spettacolarizzare ancora di più l’evento. L’operazione mediatica, perfettamente riuscita, di lanciare il trailer del film con immagini e musiche che nel film non ci sono, è forse un effetto specchietto per le allodole o invece un interessante depistaggio per lo spettatore? Ci pare che l’operazione pubblicitaria, originale e inattesa, abbia sparigliato le carte, confuso i termini e scatenato commenti e avventati giudizi, un po', ancora una volta, come accade con gli exit pool. Immaginiamo il divertimento di Zalone nell’avere innescato un putiferio e una classica tempesta in un bicchiere d’acqua.
È in questa ulteriore dualità che sta il bello dell’operazione Tolo tolo, in una serie di intuizioni che si fanno spettacolo. Di sicuro questo film deluderà molti, come effetto di rimbalzo di un’attesa che resta, in fondo, ingiustificata. Luca Medici, complice Paolo Virzì, compie un’operazione attenta e mica male congegnata, sembra annunciare uno sviluppo e invece la sua verità risiede da un’altra parte e la sua Africa diventa il luogo delle contraddizioni, il suo amico coltissimo e lui ignorante, il luogo della solidarietà e della bellezza, ma anche di una violenza ingiustificata e feroce. Zalone prova a scardinare alcuni luoghi comuni sull’immigrazione, mettendo in ridicolo i comportamenti del suo protagonista quegli atteggiamenti che lo riportano di continuo ad una sorta di crisi d’astinenza da consumismo abbagliante e inservibile. Film largamente controcorrente, proprio perché destinato ad una popolarità sconosciuta agli altri titoli, e in questa immensa platea di sicuro molti storceranno il naso se sono vere alcune sensazioni che si raccolgono e si ascoltano sulla scarsa e generalizzata benevolenza degli italiani verso l’immigrazione. Zalone, più che in ogni altra occasione ci porta dentro una realtà contingente, sembra avere voluto mettersi in gioco definitivamente, firmando la regia quasi come manifestazione di intenti.
Di sicuro, in fondo, c’è una grande voglia di ridere, ma Zalone ci prende in contropiede e sa dosare la sua comicità che si fa rarefatta e a volte velata, quasi invisibile. Anche per questo il suo film, nonostante gli incassi, non troverà un consenso generale, ma per l’artista pugliese Tolo tolo, potrebbe costituire una cesura tra un prima e un dopo, tra un personaggio più giovanile ed uno più maturo, più consapevole, perfettamente inserito in una realtà che si percepisce, come complicata e per questo incomprensibile. È in questa incomprensibilità costante che Checco vaga in Africa, senza capire tradizioni e costumi, lingua e abitudini, sradicato dal suo Paese del quale non si sente più cittadino, un uomo senza patria e senza una bandiera. Zalone è diventato un apolide di necessità.
Tonino De Pace (articolo pubblicato su Duels.it)
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