Vedere o ri-vedere

Vedere o ri-vedere (4)

Mercoledì, 19 Febbraio 2020 09:57

Inside the chinese closet

Raccontare questa storia è costato alla giovane regista sei anni di lavoro. Ore ed ore di girato in cui la cineasta ha vissuto insieme ai protagonisti, lasciando parlare le loro vite, senza ingerenze, né protagonismo. Attraverso sequenze selezionate minuziosamente, Sophia Luvarà riporta nel docufilm “Inside the Chinese Closet” immagini di una società, quella cinese, (apparentemente) lontana dall’occidente moderno ed emancipato.

E’ un racconto fatto con discrezione, senza “parteggiare” nella ricerca di una giusta interpretazione degli avvenimenti. Una narrazione in punta di piedi che ricorda la cifra stilistica di “The Great Mafia Orange Squeeze”, bellissimo documentario del 2011 in cui la Luvarà narra dell’ingerenza della 'ndrangheta nella raccolta delle arance nella Piana di Gioia Tauro e della conseguente ribellione del 2010 da parte dei lavoratori nordafricani.

Le storie di “Inside the Chinese Closet”, film ancora in attesa di distribuzione in Italia, sono servite all’autrice come spunto per raccontare l’odierna realtà cinese, un paese ateo, quindi vittima di pregiudizi culturali e non religiosi, dove però persistono ignoranza e repressione (non sempre velata) verso l’omosessualità. Solo grazie alle battaglie culturali della comunità LGBTQ cinese, l’omosessualità non è più inclusa tra i disturbi mentali dal 2001, anche se – come sottolinea all’interno del documentario la regista- esistono ancora psichiatri pronti a convertire questo genere di sessualità “fuori norma”, che, in alcuni ospedali cinesi, si cura ancora con l'elettroshock.

Nella storia del giovane omosessuale Andy e della lesbica Cherry è racchiuso l’enorme gap generazionale della Cina attuale, in cui i figli si sono aperti all’esterno, alla modernità, mentre i genitori sono rimasti ancorati alle vecchie tradizioni. Così, le vicende particolari dei due protagonisti, servono ancora una volta come spunto per investigare su valori universali come il rapporto tra genitori e figli e la necessità di quest'ultimi di rendere i propri genitori felici e orgogliosi.

Per “proteggere le proprie famiglie dalla verità” Andy e Cherry trascorrono molte ore al telefono cercando il partner ideale per i loro finti matrimoni etero. Unioni di facciata che servono a soddisfare la volontà dei genitori tradizionalisti e li spingono, al fine di garantire alla famiglia un erede, a scelte estreme, come il ricorso a figli in provetta ed al mercato nero dei bambini.

Il rispetto verso le tradizioni e l’importanza del nucleo familiare emergono anche nei momenti di convivialità. Sono tantissime le scene dove i protagonisti condividono il pasto con le famiglie, poiché in Cina (come nel Sud Italia) mangiare insieme non ha solo lo scopo di cibarsi, ma è un vero e proprio rito, che sancisce il rapporto profondo tra i partecipanti. Un legame di sangue, ma anche un legame morale.

Quest’affresco globale dell’attuale Cina, tra campagne brulle ed immense metropoli, non lascia alcuna risposta. Allo spettatore non è dato sapere cosa ne sarà dei due protagonisti, se porteranno a termine i propri progetti. Le loro storie, uniche, ed allo stesso tempo universali, sono – come già detto- un pretesto, un grimaldello per aprire uno squarcio dentro “l’armadio dei segreti” di queste famiglie cinesi.

Lavinia Romeo

Mercoledì, 19 Febbraio 2020 09:55

La memoria dell'acqua

Patricio Guzman parte dall’infinitesimamente piccolo, come la goccia d’acqua imprigionata in un cristallo di quarzo, fino ad arrivare all’immensità sconfinata dell’universo, luogo da cui (secondo alcune teorie) proviene il prezioso elemento. E’ una voce fuori campo ad accompagnare lo spettatore nel viaggio sull’origine della vita, dove l’acqua è la fonte primaria dell’esistenza, la memoria fluida che conserva i volti, i corpi e le parole di coloro che sono scomparsi, come la civiltà dei Selknam, gli indios della Patagonia sterminati dai conquistadores bianchi, il cui ricordo sopravvive nei racconti dei pochi discendenti superstiti, gli ultimi rappresentanti di quella cultura primigenia oramai estinta.

Dopo “Nostalgia della luce”, il regista prosegue il suo viaggio documentaristico ed emozionale nella terra natia, raccontando, attraverso immagini spettacolari, il continuo intrecciarsi di storia e natura, di popoli e paesaggi che insieme hanno dato origine alla millenaria identità cilena.

Per Guzman, nella “memoria dell’acqua” sono conservate le gesta dei popoli nativi, vogatori nomadi ed osservatori del cosmo, che all’acqua avevano consacrato la vita, riuscendo a percorrere a bordo di minuscole imbarcazioni le coste sconfinate del vasto arcipelago cileno, ma anche il grido di dolore dei desaparecidos, uomini e donne uccisi e fatti sparire durante il sanguinario regime di Augusto Pinochet.

Attraverso il crepitio della pioggia sulle rocce e le spettacolari riprese aeree dell’estuario occidentale cileno, il regista ripercorre l’antichissimo cammino dell’acqua: “E’ un viaggio che va mille anni nel futuro e poi mille anni indietro, nel passato” - dice Guzman - mettendo in correlazione le infinite vedute spaziali, con il  piccolo bottone rimasto attaccato ad una trave di ferro usata per far affondare, nelle acque dell'oceano, i corpi degli oppositori di Pinochet.

E’ una memoria negata, soffocata, come la voce dei dissidenti al regime, dal pugno duro della dittatura, la cui crudeltà il regista conosce in prima persona. Ed il cerchio del limpido e poetico racconto di Guzman si chiude con la storia leggendaria di Jemmy Button, indigeno sradicato dalla Terra del fuoco e deportato in Europa nel 1830. I conquistadores trasformarono Jemmy in un uomo civilizzato, spazzando via la sua storia e la sua identità, che comprarono, per dileggio, al misero prezzo di un bottone di madreperla.

Lavinia Romeo

Mercoledì, 19 Febbraio 2020 09:54

A proposito di... Mediterranea

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La filosofia di Pio Amato

E sapevamo la pazienzamediterranea
di chi non si può fermare
e la santa carità
del santo regalare
lo sapevamo anche noi
il colore dell’offesa
e un abitare magro e magro
che non diventa casa.
(Gianmaria Testa)

Ci sono film che nascondono altri film. Perchè ci sono vite e storie che nascondono altre vite, altre storie. Può capitare a volte che personaggi, inizialmente marginali, diventino i veri protagonisti di lungometraggi, sino alla piena identificazione, da parte del pubblico, tra loro ed il film.

Palla di lardo in “Full metal Jacket” ne è un esempio: non è il protagonista, non è l’io narrante, non partecipa alla guerra in Vietnam e alla fine del primo tempo si ammazza, ma nessuno di noi dirà che non sia lui realmente il vero protagonista e attore principale del film. Avviene per decantazione, a volte, che nel nostro immaginario si affollino figure non ritenute determinanti all’intreccio del film o persino macchiette con il loro cameo, apparentemente inutili alla trama, intromessi per renderla solo più vera, e poi ci accorgiamo che aggiungono senso all’evento narrativo. Non sto parlando di Turturro nell’ultimo film di Moretti. Parlo di Pio Amato. Pio nel film di Jonas Carpignano, così come nella vita. A chi ha avuto modo di vedere “Mediterranea” non può essergli sfuggito. Il ragazzino di origine Rom perfettamente integrato nel sistema di scambio, la sola economia rosarnese e della piana, è un gigante nel film. Non ruba lui, anzi sembra trovare una soluzione per tutti, più o meno sventurati, attraverso quel poco che ha in quel mercatino neanche troppo nascosto di illegalità e disperazione che Pio gestisce e dove tutto è a buon mercato, sia in moneta o se preferite in merce da scambio. Solo così si può coprire, a breve termine, secondo una filosofia dell’arrangiarsi, la prima necessità alla sopravvivenza: è questa la filosofia di Pio. Ma è anche la filosofia di quel territorio. La prima necessità, forse si può, per il resto ti devi arrangiare e adeguare. Certo la fatica occidentale alla sopravvivenza che fa di Pio il nostro eroe zingaro ma stanziale, non è paragonabile al dolore clandestino del migrante senza permesso di soggiorno. Ma restano comunque due illegali sia lui che Ayiva giovane del Burkina Faso, il vero protagonista di Mediterranea.

Si capiscono a volo i due, e non si fregano anzi si risconoscono come amici di vecchia data. Marginali sradicati entrambi, in una terra tanto dura da lavorare quanto da amare, terra capace di accoglienza solo a patto che il servigio sia indispensabile e mai contrattabile dalla parte svantaggiata, e dove solo Pio, da vero rom, sembra strafottersene liberamente permettendosi il lusso di mercanteggiare le sue cianfrusaglie.

mediterranea 2Eppure La legge del mercato (per citare un altro nostro film in rassegna) è chiara: in una economia povera i poveri sono ancora più poveri e inermi. Funziona così, e sarebbe bello, immaginare diversamente. Anche in questo Pio ci sembra ancora più audace e ci aiuta: una soluzione lui cerca di darla a tanta povertà e solitudine, lui, dieci anni e l’immancabile sigaretta in bocca, è una maschera che rallegra e mitiga la fatica degli ultimi, e come tutte le maschere sembra voler annullare le pene, barattandole con uno sfottò che vuol essere empatico e sempre amichevole o come avviene nel film con un i-pod a quattro soldi da restituire se non funziona. Se ce la fa lui, in quell’inferno, ti dirai, ce la faranno anche Ayiva e compagni. Ma non è tutto cosi semplice...Perchè, nel film, quel che emerge è il deserto di questa sponda occidentale che ha il nome della Crisi anzi peggio della fine di un’economia reale e mai solidale (dai baroni al caporalato dei clan), così come la fine di una civiltà (contadina) che ne consegue, dove naufragano non solo i migranti nei campi maleodoranti, ma i figli di quella terra chiusi tra mura protette, soli a scimmiottare inebetiti davanti al televisore, una lingua, o un passo di danza. Così vive gran parte di quel compresnsorio.

La violenza dei locali, l’unico aggregante, sembra la soluzione a tanto disfacimento. E lo sarebbe veramente. Ma è rivolta verso gli ultimi e, paradossalmente, contro la propria storia di emigrazione e sfruttamento. Autodistruttiva, e per questo, immediatamente ed inevitabilmente agli onori (o disonori) della cronaca. Perse le radici non c’è bisogno di leggere Pasolini per capire. Basta guardarsi attorno: non c’è più Medma sepolta da millenni né le storie nobili di uomini come Cosimo Pirrozzo (l’anarchico rosarnese celebrato da Ken Loach in “Terra e libertà”) o di Peppino Valarioti col suo coraggio civile e la sua lungimiranza nel capire quanto sia devastante per un’economia come quella della piana (e d’Italia, direi, ora) l’intreccio affaristico tra coperative e malavita organizzata.

A chi deve volgere allora lo sguardo il povero Ayiva, che di questa vicende non ne sa nulla eppure ne vuole ostinatamente rimanere parte? Quali antichi miti lo sosterranno a rimanere ancora in una terra altrettanto antica e struggente senza mai rimpiangere nulla? E basterà Skype e “Mamma Africa” per soddisfare legami ed affetti lontani?

Partecipare ad una storia comune, edificarne una parte mancante e magari iniziare così a modificarne gli eventi futuri, si può.

Anche attraversando una lunga e dolorosa soglia di casa.

Rolando Iaria

Mercoledì, 19 Febbraio 2020 09:50

Definire l'umano o del fattore K

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 Chi sono non lo so. Sarà la vita a dirmelo.

J.W. Goethe

Anche per quanti non amano i sequel, BladeRunner 2049 non si poteva mancare.

Il capolavoro di Ridley Scott tornava in versione Villeneuve e, per i sopravvissuti a tanto ritardo,l’occasione di poter ripetere l’esperienza postumana confezionata nel‘68 da Philip Dick e liberamente ripresa nel 1982 da R.Scott, era ghiotta.

Ancora la pioggia acida ci avrebbe avvolti fra masse brulicanti di sbandati nel buio soffuso di lumi a gas e insegne al neon o ci saremmo infilati nelle stanze tetre dei templi gotici, dove regnavano le grandi corporation padroni della vita e della morte?

Lì trentacinque anni fa avevamo assistito alla lotta per la sopravvivenza tra Rick Deckard e Roy Batty, umano e disumano, avvinghiati l’un l’altro, terrorizzati dalla morte che li rendeva simili e nemici.

blade 2Era l’umanità(sic) del bladerunner, il cacciatore, ad essere scalfita dalla grazia concessagli dalla preda, in quel finale empatico-poetico memorabile (“io ne ho visto cose che voi umani….”) che ribaltava l’assioma cardine del replicante incapace di provare sentimenti, figuriamoci la pietà, secondo la prima lezione del testo di Philip Dick.

Già la pellicola del 1982, quindi, ci costringeva a ridefinire l’umano proiettati in quel futuro dove alla concezione naturale di homo-creator, capace di dare vita senza poter disporre di essa, si sostituiva quella di homo-faber, libero invece sia di creare che disporre della sua creatura: quei “lavori in pelle” (sarcasticamente così definite), così, nascondevano l’ultima e più sofisticata civiltà del dominio fondata sempre sulla manodopera sacrificabile, questa volta creata in laboratorio.

In quello scenario disumanizzato assistevamo al parricidio del costruttore di androidi al quale questi erano risaliti per chiedere ancora vita rispetto alla loro condizione terminale, ottenendo dal “padre” solo risposte disarmanti a conferma del rapporto di schiavitù originario e della irresponsabilità della tecnoscienza.

Distinguere l’umano dal robot, partendo magari da Alan Turing padre della cibernetica, è certamente l’argomento sul quale si avvolge il nastro di R.Scott che, nelle diverse versioni, non si allontana mai dal pensiero dello scienziato per il quale resta incerta la capacità di distinguere l’intelligenza artificiale da quella umana, la macchina dall’uomo; sino alla versione di un Deckart androide-a-sua-insaputa, costruito solo per “ritirare” gli schiavi ribelli.

Quel dubbio che fa da sfondo al film di R. Scott, nasce dal concetto che l’empatia, unico criterio per discriminare l’uomo dall’automa, possa non emergere dai test a cui il bladerunner sottopone le sue prede, semplicemente perché non tutti gli uomini sono realmente empatici (immaginate i vostri vicini) né tantomeno si può aver prova della loro coscienza essendo, questa, non esperibile dall’esterno: l’uomo ha coscienza solo della sua vita interiore mentre per quella altrui la desume dai loro comportamenti.

Per A. Turing, certi comportamenti umani potrebbe averli anche un robot adattato a simularli, così come avviene in BladeRunner, dove ilblade 1 padre costruttore ha malvagiamente “perfezionato” alcuni replicanti impiantandogli una memoria fittizia di ricordi ed emozioni che li fa vivere nella certezza di essere umani.

Quel test di Voight-Kampff utile a riconoscere il grado di empatia, e soprattutto l’artificio dei ricordi, li ritroviamo ribaltati, questa volta in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve dove l’agente K, professione: cacciatore di androidi, è un replicante di nuova generazione sottoposto lui a quei test per verificarne l’affidabilità e fedeltà all’uomo-padrone; mentre la sua memoria, per gran parte del film, è ingannata da flash di vita vissuta, che saranno poi causa della sua ribellione e del cammino a ritroso verso la propria natura e appartenenza.

Il “cacciatore” di Villeneuve sa, rispetto al precedente bladerunner di R.Scott, di essere una macchina costruita per difendere una “postazione umana” così asettica da far rimpiangere la città brulicante di 30 anni prima, quella Los Angeles distrutta da sembrare Aleppo separata da un muro oltre il quale bambini-schiavi lavorano per gli stessi costruttori di K.

Tutto questo non aiuta però alla visione del film che, lento, lungo e confuso in alcune parti, sembra rinunciare alle nostre recondite paure (come avviene nei film di fantascienza) a favore di una proiezione, color polvere e seppia, di ecatombe ambientali più vicine al nostro tempo rispetto anche a quello immaginato da Scott, ma non per questo meno angosciante per quel vuoto ossessivo dovuto alla perdita di un passato “glorioso” del quale restano solo immagini di vecchie glorie trasformate in ologrammi pronti a ripetere a comando i loro tristissimi refrain.

Con il sequel di Villeneuve si ribalta indubbiamente la costruzione duale uomo/macchina del primo Blade Runner, dove l’eterna lotta tra natura e scienza, reale e artificiale, celebrava comunque l’uomo con tutte le sue paure di fine millennio, proiettate nelle parole dell’alter-ego replicante e dei suoi tormenti di schiavo senza storia e senza destino.

Al ribelle Roy Batty si sostituisce ora, nel sequel, l’agente K custode insieme ad altri androidi del “miracolo” della prima nascita oltre-umana avvenuto ai tempi di Deckart e del suo amore replicante Rachel, e per questo pronti a creare il caos pur di diffondere il verbo della uguaglianza che abbatte ogni barriera tra creature, libere dal giogo eterno dei potenti.

Qualcosa di simile, rivolta agli uomini, è già arrivata anche a noi.

Tramandata da millenni.

Rolando Iaria

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