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Domenica, 20 Ottobre 2019 22:20

Martin Eden, onniscente e onnipresente

Nel, tutto sommato, rassicurante cielo del cinema italiano dell’ultima edizione della Mostra di Venezia, Martin Eden di Pietro Marcello ha rappresentato un inatteso fulmine che ha animato, diviso e quindi intercettato l’attenzione del pubblico.

In realtà il film del regista casertano ha anche avuto il merito di animare un dibattito che va al di là della semplice recensione e che sa, invece, di ricerca e studio della struttura di un film che conserva le caratteristiche non solo di una narrazione, ma di una più accurata indagine sulle caratteristiche strutturali dell’opera, con una coraggiosa dedizione all’invenzione e ad una mai banale creatività visiva.

Marcello aveva dimostrato le sue doti di originale manipolatore della materia del racconto con il precedente Bella e perduta in cui erano intimamente mescolati, tanto da costituirne ossatura indistinguibile dal racconto, elementi della tradizione popolare con la necessaria e mai invasiva mediazione della cultura del pensiero che faceva da raccordo narrativo all’interno del fantastico mondo dentro il quale i personaggi del reale si confondevano con quelli del mito, rivelando quel cinema la sostanza del sogno. Un approccio già inconsueto che nasceva come documentazione della contemporaneità, segnata dalla figura di Tommaso il custode della villa patrizia in rovina, e che approdava, invece, ad una rilettura del mito il cui mentore era Pulcinella, eterna incarnazione della saggezza filosofica del quotidiano.

Martin Eden prosegue, rinnovandosi, su quella strada e sembra avere chiaro l’autore che il suo intento non è tanto quello di mettere in scena il profilo meramente narrativo del suo soggetto, quanto piuttosto, attraverso il suo cinema, dare vita ad una struttura diegetica del tutto a se stante e non replicabile, film dopo film, se non nella sua ideazione che faccia riferimento ad un mondo esistente, sulla carta e solo nel cinema, ma al tempo stesso credibile e vivente. Un sistema complesso nel cui impianto risultano metabolizzati e quindi pienamente organici alla struttura complessiva, più elementi che messi insieme conferiscono all’opera una originalità che sorprende lo spettatore. Tutto appare però perfettamente calibrato secondo un profondo accordo tra le parti differenti, con un effetto visivo finale che fa della coerenza istintiva un insieme complesso, solo apparentemente semplice e, ma sempre naturale. Pietro Marcello sembra quindi dedicarsi più alla ricerca di una lingua che possa tradurre le sue illuminazioni da riversare nell’ambiente del suo racconto, più che al puro atto espositivo. In altre parole, più all’invenzione che attinga all’immaginazione utopica, che alla stretta coerenza dettata dal testo dal quale si attinge. Una ricerca che coniuga in modo innovativo il profilo intellettuale delle sue operazioni e quello più strettamente legato alla tradizione più popolare. Sono queste le scommesse, fino ad oggi vincenti del regista e Martin Eden conferma ampiamente queste sue doti non comuni e anzi un po’ aliene nel cinema italiano, almeno con l’intensità e la resa visiva che il lavoro fin a qui svolto dal regista campano ha comportato.

Immaginiamo che il film, in cui convivono più epoche e più riferimenti a temi differenti della nostra storia, dai fascisti in camicia nera e fez agli immigrati, dalla televisione e alle automobili anni ’60 fino alla nascita del partito socialista, tutto apparentemente riversato in un ambiente borghese di primo novecento, abbia avuto bisogno di un profondo lavoro di scrittura, ma anche di ricucitura scenografica utile a restituire, pur nella fantastica forma dello scenario, una sua logica interiore che restituisse compattezza e verosimiglianza nel rispetto del mondo ideale che è stato costruito. A questo proposito è notevole l’analisi che compie Roberto De Gaetano, pubblicata su fatamorganaweb. De Gaetano individua proprio nella attenta destrutturazione il portato principale del lavoro di Marcello. Il regista parte dalla sua Napoli – perfettamente descritta da De Gaetano riprendendo Benjamin – come città porosa, quindi permeabile e qui permeabile anche al tempo che coesiste. In questa permeabilità si ritrova anche la sintesi del mito – prosegue l’autore – che resta rappresentata dagli inserti d’archivio che uniscono la quotidianità novecentesca alla grande storia di quel secolo, svelando la “sintesi mitica” della finzione messa in scena. La privazione di ogni “portato mitico dà senso alle immagini d’archivio” conclude De Gaetano.

Queste considerazioni consentono di meglio riflettere anche sulla poetica di Marcello la cui cifra espressiva è in parte fondata anche su questi reperti del passato. I suoi film sono ricchi di queste immagini iconiche o meno e sembrano fare riferimento ad un mondo ideale al quale l’autore sente di appartenere e riversa questa aspirazione nella sua espressione cinematografica, diventando le sue immagini inscindibili dal profondo legame che l’esito della narrazione, così arricchita, sa dimostrare anche sotto il profilo di una costante coerenza.

Proprio la naturalità o meno, la coerenza o l’incoerenza di queste, nella finale costruzione dell’opera film, ha costituto argomento di dibattito attorno al film. Riteniamo che le riflessioni di De Gaetano, sommariamente riportate, abbiano centrato il tema che ruota attorno al clima che il regista è riuscito a realizzare attraverso la coesistenza di tempi e di spazi differenti. Marcello è riuscito a creare attorno al suo personaggio onnisciente e onnipresente, un universo quotidiano in cui convivono i tempi e le immagini che non sono “archivi visivi”, ma temi viventi e quindi contemporanei. Questo il salto di qualità che il film ha voluto compiere quello cioè di ricreare nel cinema il volto di un presente inesistente, ma reale, consustanziale al passato e al presente di qualsiasi contemporaneità.

Il film di Marcello, nel Concorso principale, è stato premiato per l’interpretazione di Gianluca Marinelli, il quale, soprattutto nella prima parte, ha saputo restituire al suo personaggio vagante nel tempo, quella rabbia necessaria e quella volontà d’animo che costituiscono i fondamenti essenziali della ricerca e alla fine dell’approdo ad una nuova condizione. È proprio questo il percorso del personaggio, che in questo riflette quello del romanzo al quale il film si è ispirato. Marinelli ha imboccato la strada giusta – gli perdoneremo qualche eccesso di troppo nell’ultima parte – ricevendo per questo la meritata Coppa Volpi per il migliore attore.

Tonino De Pace

(da Diari di Cine Club n. 76, ottobre 2019)

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