Raccontaci quella barzelletta rimasta in sospeso, Arthur, quella non-detta perché sarebbe incomprensibile persino alla psichiatra che ti ha in cura o, forse, ti aveva in cura …. e non ha importanza se appartiene al tuo repertorio triste di cabarettista incompreso.
E’stato facile per il regista Todd Phillips condurci fin qui, in fondo al suo racconto nerissimo, appassionandoci sino ad identificarci alla vicenda umana del perdente e della sua folle rivalsa, per poi abbandonarci al finale aperto ad ogni possibile interpretazione.
Altrettanto facile è stato accostare le vicende narrate nel film ai nostri giorni turbolenti e confusi che viviamo, tra piazze inferocite in ogni latitudine della terra e la deriva populista che quella rabbia alimenta, istiga e rappresenta, facendosi portavoce di un malessere generalizzato.
Ma sarebbe riduttivo attribuire a questa analisi politico/sociologica l’attribuzione del Leone d’Oro al festival di Venezia al film “Joker” a dispetto della indubbia e più meritata riconoscenza all’attore protagonista. In verità l’uno non vive senza l’altro e, forse, il segreto della mancata premiazione all’interprete a favore del film rimane dentro questa simbiosi: J. Phoenix nelle due ore di proiezione non fa Joker ma lo è realmente, anzi lo diventa. E’lui il film, e lo è nella voce e nel corpo di Arthur Fleck nel quale si incarna pian piano il diabolico Joker.
Capire chi è Joker, secondo Todd Phillips, significa abbandonare l’idea del criminale nemico di Batman e delle istituzioni di Gotham City, e percepirne la profonda infelicità che muove anime compromesse e fragili come quella di Arthur perso nella battaglia con sé stesso, le sue incerte origini, il delirio materno, la malattia malcelata, sperando di poter mutare quell’io-responsabile di ogni iattura in un altro sé, folle e irresponsabile quanto vuoi, ma felicemente libero.
Il corpo è il primo arnese di cui Arthur sente la necessità di disfarsi.
L’immagine che gli rimanda lo specchio prima della definitiva mutazione, è quella di un corpo che si annoda su sé stesso in uno spasmo che mima il desiderio dell’altro, spigoloso e sinuoso come un autoritratto di Egon Schiele, ma costretto da limiti psichici ed ambientali, alla mancata visibilità come figlio, amante, artista.
La performance alla quale ama abbandonarsi resta solo un momentaneo appagamento compiuto nella piena solitudine della sua stanza, così come la risata irrefrenabile è in verità un disturbo neurologico che si trasforma in guaito e non sortisce alcun effetto empatico, anzi lo inchioda alla sua stranezza di animale percosso.
La maschera sorridente con la quale decide di presentarsi al pubblico non può che essere, allora, il primo passo di una mutazione verso la parte aliena, dove al clown soccombente ed impacciato subentra lo spietato vendicatore delle angherie subite negli anni e che nessuna “ragione” può più consolare, neppure l’ambita e raggiunta partecipazione allo spettacolo televisivo preferito a fianco del gigionesco presentatore Murray Franklin/ Robert De Niro.
Ma come scrive Arthur nel suo brogliaccio di appunti se“basta una giornata storta per trasformare il migliore degli uomini in un folle”, e se “la cosa peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che tu ti comporti come se non l’avessi”, tutto sembra precipitare nell’inevitabile sdoppiamento o nel tracollo del cabarettista mancato.
Nulla di salvifico muove allora Joker verso la sua follia omicida, ma solo il risentimento reso meno doloroso dall’odio che, teatralizzato, trasforma a suo giudizio la vita in commedia.
La differenza col De Niro di “Taxi driver”(film accostato a “Joker”), e il suo soggetto con disturbo post traumatico, trasformatosi nel giustiziere-fai-da-te per liberare l’adolescente Iris (Jodie Foster) dal mondo della prostituzione, è abissale.
In Joker non c’è ombra di giustizia o di riscatto e né lui intende farsi portavoce di alcuna battaglia (oltre la sua):anche le accuse rivolte al pubblico televisivo alla presenza di Murray Franklin appartengono esclusivamente al tormentone costruito sul suo disagio personale; tant’è vero che lo stesso Franklin non percepisce alcun pericolo imminente, anzi continua a banalizzarlo in modo ironico e sprezzante.
Ma l’arte della diretta ha i suoi imprevisti e il gioco diventa fatale per l’uno (De Niro) e liberatorio per l’altro (Phoenix): è qui che Arthur diventa definitivamente Joker, quella maschera ferina nella quale, suo malgrado, un pubblico di diseredati si vuole riconoscere.
Nella morte di Murray Franklinnoi percepiamo, invece, non solo il passaggio di testimone dal “vecchio” istrione al nuovo, ma da un cinema memorabile come quello di Scorsese capace di descrivere l’epoca di una nazione e le sue irrisolte contraddizioni, ad un cinema astratto e antistorico che per mantenere il passo che ha reso grande l’altro, per ottenere quella potenza visiva, adatta la realtà alla finzione (scomodando persino i Cinecomic), in un corto-circuito contrario a quello che ha reso grande Martin Scorsese.
Ma il cinema, sappiamo, è per statuto mutevole, un miracolo non riducibile a facili paradigmi; sicuramente costruito sulla schizofrenica volontà di liberare la nostra parte nascosta (migliore o peggiore).Cosicché se abbiamo simpatizzato per Arthur lo sfigato, consapevoli che il desiderio di rivalsa appartiene agli uomini e non ai mostri, non ci dobbiamo però stupire se il rovescio della sua medaglia, in “Joker”, ahimè, nascondeva quella distopia che è in grado di consegnarci mani e piedi alla corte di un capo truculento quanto folle.
Forse è questa l’ultima storiella su cui ci ha voluto lasciare Todd Phillips, troppo simile allo stato delle cose per essere percepita come barzelletta.
Rolando Iaria
Tutte le immagini e i contenuti del sito sono di proprietà dei rispettivi autori, espressamente citati. E' vietata la riproduzione, anche parziale, di testi e foto. Non si assume alcuna responsabilità sulla veridicità dei contenuti e delle informazioni contenuti, in varia forma, nel sito.