Visti davanti, visti da dietro -
Rolando Iaria
La filosofia di Pio Amato
Ci sono film che nascondono altri film. Perchè ci sono vite e storie che nascondono altre vite, altre storie. Può capitare a volte che personaggi, inizialmente marginali, diventino i veri protagonisti di lungometraggi, sino alla piena identificazione, da parte del pubblico, tra loro ed il film.
Palla di lardo in “Full metal Jacket” ne è un esempio: non è il protagonista, non è l’io narrante, non partecipa alla guerra in Vietnam e alla fine del primo tempo si ammazza, ma nessuno di noi dirà che non sia lui realmente il vero protagonista e attore principale del film. Avviene per decantazione, a volte, che nel nostro immaginario si affollino figure non ritenute determinanti all’intreccio del film o persino macchiette con il loro cameo, apparentemente inutili alla trama, intromessi per renderla solo più vera, e poi ci accorgiamo che aggiungono senso all’evento narrativo. Non sto parlando di Turturro nell’ultimo film di Moretti. Parlo di Pio Amato. Pio nel film di Jonas Carpignano, così come nella vita. A chi ha avuto modo di vedere “Mediterranea” non può essergli sfuggito. Il ragazzino di origine Rom perfettamente integrato nel sistema di scambio, la sola economia rosarnese e della piana, è un gigante nel film. Non ruba lui, anzi sembra trovare una soluzione per tutti, più o meno sventurati, attraverso quel poco che ha in quel mercatino neanche troppo nascosto di illegalità e disperazione che Pio gestisce e dove tutto è a buon mercato, sia in moneta o se preferite in merce da scambio. Solo così si può coprire, a breve termine, secondo una filosofia dell’arrangiarsi, la prima necessità alla sopravvivenza: è questa la filosofia di Pio. Ma è anche la filosofia di quel territorio. La prima necessità, forse si può, per il resto ti devi arrangiare e adeguare. Certo la fatica occidentale alla sopravvivenza che fa di Pio il nostro eroe zingaro ma stanziale, non è paragonabile al dolore clandestino del migrante senza permesso di soggiorno. Ma restano comunque due illegali sia lui che Ayiva giovane del Burkina Faso, il vero protagonista di Mediterranea.
Si capiscono a volo i due, e non si fregano anzi si risconoscono come amici di vecchia data. Marginali sradicati entrambi, in una terra tanto dura da lavorare quanto da amare, terra capace di accoglienza solo a patto che il servigio sia indispensabile e mai contrattabile dalla parte svantaggiata, e dove solo Pio, da vero rom, sembra strafottersene liberamente permettendosi il lusso di mercanteggiare le sue cianfrusaglie.
Eppure La legge del mercato (per citare un altro nostro film in rassegna) è chiara: in una economia povera i poveri sono ancora più poveri e inermi. Funziona così, e sarebbe bello, immaginare diversamente. Anche in questo Pio ci sembra ancora più audace e ci aiuta: una soluzione lui cerca di darla a tanta povertà e solitudine, lui, dieci anni e l’immancabile sigaretta in bocca, è una maschera che rallegra e mitiga la fatica degli ultimi, e come tutte le maschere sembra voler annullare le pene, barattandole con uno sfottò che vuol essere empatico e sempre amichevole o come avviene nel film con un i-pod a quattro soldi da restituire se non funziona. Se ce la fa lui, in quell’inferno, ti dirai, ce la faranno anche Ayiva e compagni. Ma non è tutto cosi semplice...Perchè, nel film, quel che emerge è il deserto di questa sponda occidentale che ha il nome della Crisi anzi peggio della fine di un’economia reale e mai solidale (dai baroni al caporalato dei clan), così come la fine di una civiltà (contadina) che ne consegue, dove naufragano non solo i migranti nei campi maleodoranti, ma i figli di quella terra chiusi tra mura protette, soli a scimmiottare inebetiti davanti al televisore, una lingua, o un passo di danza. Così vive gran parte di quel compresnsorio.
La violenza dei locali, l’unico aggregante, sembra la soluzione a tanto disfacimento. E lo sarebbe veramente. Ma è rivolta verso gli ultimi e, paradossalmente, contro la propria storia di emigrazione e sfruttamento. Autodistruttiva, e per questo, immediatamente ed inevitabilmente agli onori (o disonori) della cronaca. Perse le radici non c’è bisogno di leggere Pasolini per capire. Basta guardarsi attorno: non c’è più Medma sepolta da millenni né le storie nobili di uomini come Cosimo Pirrozzo (l’anarchico rosarnese celebrato da Ken Loach in “Terra e libertà”) o di Peppino Valarioti col suo coraggio civile e la sua lungimiranza nel capire quanto sia devastante per un’economia come quella della piana (e d’Italia, direi, ora) l’intreccio affaristico tra coperative e malavita organizzata.
A chi deve volgere allora lo sguardo il povero Ayiva, che di questa vicende non ne sa nulla eppure ne vuole ostinatamente rimanere parte? Quali antichi miti lo sosterranno a rimanere ancora in una terra altrettanto antica e struggente senza mai rimpiangere nulla? E basterà Skype e “Mamma Africa” per soddisfare legami ed affetti lontani?
Partecipare ad una storia comune, edificarne una parte mancante e magari iniziare così a modificarne gli eventi futuri, si può.
Anche attraversando una lunga e dolorosa soglia di casa.
Rolando Iaria
Chi sono non lo so. Sarà la vita a dirmelo.
J.W. Goethe
Anche per quanti non amano i sequel, BladeRunner 2049 non si poteva mancare.
Il capolavoro di Ridley Scott tornava in versione Villeneuve e, per i sopravvissuti a tanto ritardo,l’occasione di poter ripetere l’esperienza postumana confezionata nel‘68 da Philip Dick e liberamente ripresa nel 1982 da R.Scott, era ghiotta.
Ancora la pioggia acida ci avrebbe avvolti fra masse brulicanti di sbandati nel buio soffuso di lumi a gas e insegne al neon o ci saremmo infilati nelle stanze tetre dei templi gotici, dove regnavano le grandi corporation padroni della vita e della morte?
Lì trentacinque anni fa avevamo assistito alla lotta per la sopravvivenza tra Rick Deckard e Roy Batty, umano e disumano, avvinghiati l’un l’altro, terrorizzati dalla morte che li rendeva simili e nemici.
Era l’umanità(sic) del bladerunner, il cacciatore, ad essere scalfita dalla grazia concessagli dalla preda, in quel finale empatico-poetico memorabile (“io ne ho visto cose che voi umani….”) che ribaltava l’assioma cardine del replicante incapace di provare sentimenti, figuriamoci la pietà, secondo la prima lezione del testo di Philip Dick.
Già la pellicola del 1982, quindi, ci costringeva a ridefinire l’umano proiettati in quel futuro dove alla concezione naturale di homo-creator, capace di dare vita senza poter disporre di essa, si sostituiva quella di homo-faber, libero invece sia di creare che disporre della sua creatura: quei “lavori in pelle” (sarcasticamente così definite), così, nascondevano l’ultima e più sofisticata civiltà del dominio fondata sempre sulla manodopera sacrificabile, questa volta creata in laboratorio.
In quello scenario disumanizzato assistevamo al parricidio del costruttore di androidi al quale questi erano risaliti per chiedere ancora vita rispetto alla loro condizione terminale, ottenendo dal “padre” solo risposte disarmanti a conferma del rapporto di schiavitù originario e della irresponsabilità della tecnoscienza.
Distinguere l’umano dal robot, partendo magari da Alan Turing padre della cibernetica, è certamente l’argomento sul quale si avvolge il nastro di R.Scott che, nelle diverse versioni, non si allontana mai dal pensiero dello scienziato per il quale resta incerta la capacità di distinguere l’intelligenza artificiale da quella umana, la macchina dall’uomo; sino alla versione di un Deckart androide-a-sua-insaputa, costruito solo per “ritirare” gli schiavi ribelli.
Quel dubbio che fa da sfondo al film di R. Scott, nasce dal concetto che l’empatia, unico criterio per discriminare l’uomo dall’automa, possa non emergere dai test a cui il bladerunner sottopone le sue prede, semplicemente perché non tutti gli uomini sono realmente empatici (immaginate i vostri vicini) né tantomeno si può aver prova della loro coscienza essendo, questa, non esperibile dall’esterno: l’uomo ha coscienza solo della sua vita interiore mentre per quella altrui la desume dai loro comportamenti.
Per A. Turing, certi comportamenti umani potrebbe averli anche un robot adattato a simularli, così come avviene in BladeRunner, dove il padre costruttore ha malvagiamente “perfezionato” alcuni replicanti impiantandogli una memoria fittizia di ricordi ed emozioni che li fa vivere nella certezza di essere umani.
Quel test di Voight-Kampff utile a riconoscere il grado di empatia, e soprattutto l’artificio dei ricordi, li ritroviamo ribaltati, questa volta in Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve dove l’agente K, professione: cacciatore di androidi, è un replicante di nuova generazione sottoposto lui a quei test per verificarne l’affidabilità e fedeltà all’uomo-padrone; mentre la sua memoria, per gran parte del film, è ingannata da flash di vita vissuta, che saranno poi causa della sua ribellione e del cammino a ritroso verso la propria natura e appartenenza.
Il “cacciatore” di Villeneuve sa, rispetto al precedente bladerunner di R.Scott, di essere una macchina costruita per difendere una “postazione umana” così asettica da far rimpiangere la città brulicante di 30 anni prima, quella Los Angeles distrutta da sembrare Aleppo separata da un muro oltre il quale bambini-schiavi lavorano per gli stessi costruttori di K.
Tutto questo non aiuta però alla visione del film che, lento, lungo e confuso in alcune parti, sembra rinunciare alle nostre recondite paure (come avviene nei film di fantascienza) a favore di una proiezione, color polvere e seppia, di ecatombe ambientali più vicine al nostro tempo rispetto anche a quello immaginato da Scott, ma non per questo meno angosciante per quel vuoto ossessivo dovuto alla perdita di un passato “glorioso” del quale restano solo immagini di vecchie glorie trasformate in ologrammi pronti a ripetere a comando i loro tristissimi refrain.
Con il sequel di Villeneuve si ribalta indubbiamente la costruzione duale uomo/macchina del primo Blade Runner, dove l’eterna lotta tra natura e scienza, reale e artificiale, celebrava comunque l’uomo con tutte le sue paure di fine millennio, proiettate nelle parole dell’alter-ego replicante e dei suoi tormenti di schiavo senza storia e senza destino.
Al ribelle Roy Batty si sostituisce ora, nel sequel, l’agente K custode insieme ad altri androidi del “miracolo” della prima nascita oltre-umana avvenuto ai tempi di Deckart e del suo amore replicante Rachel, e per questo pronti a creare il caos pur di diffondere il verbo della uguaglianza che abbatte ogni barriera tra creature, libere dal giogo eterno dei potenti.
Qualcosa di simile, rivolta agli uomini, è già arrivata anche a noi.
Tramandata da millenni.
Rolando Iaria
Raccontaci quella barzelletta rimasta in sospeso, Arthur, quella non-detta perché sarebbe incomprensibile persino alla psichiatra che ti ha in cura o, forse, ti aveva in cura …. e non ha importanza se appartiene al tuo repertorio triste di cabarettista incompreso.
E’stato facile per il regista Todd Phillips condurci fin qui, in fondo al suo racconto nerissimo, appassionandoci sino ad identificarci alla vicenda umana del perdente e della sua folle rivalsa, per poi abbandonarci al finale aperto ad ogni possibile interpretazione.
Altrettanto facile è stato accostare le vicende narrate nel film ai nostri giorni turbolenti e confusi che viviamo, tra piazze inferocite in ogni latitudine della terra e la deriva populista che quella rabbia alimenta, istiga e rappresenta, facendosi portavoce di un malessere generalizzato.
Ma sarebbe riduttivo attribuire a questa analisi politico/sociologica l’attribuzione del Leone d’Oro al festival di Venezia al film “Joker” a dispetto della indubbia e più meritata riconoscenza all’attore protagonista. In verità l’uno non vive senza l’altro e, forse, il segreto della mancata premiazione all’interprete a favore del film rimane dentro questa simbiosi: J. Phoenix nelle due ore di proiezione non fa Joker ma lo è realmente, anzi lo diventa. E’lui il film, e lo è nella voce e nel corpo di Arthur Fleck nel quale si incarna pian piano il diabolico Joker.
Capire chi è Joker, secondo Todd Phillips, significa abbandonare l’idea del criminale nemico di Batman e delle istituzioni di Gotham City, e percepirne la profonda infelicità che muove anime compromesse e fragili come quella di Arthur perso nella battaglia con sé stesso, le sue incerte origini, il delirio materno, la malattia malcelata, sperando di poter mutare quell’io-responsabile di ogni iattura in un altro sé, folle e irresponsabile quanto vuoi, ma felicemente libero.
Il corpo è il primo arnese di cui Arthur sente la necessità di disfarsi.
L’immagine che gli rimanda lo specchio prima della definitiva mutazione, è quella di un corpo che si annoda su sé stesso in uno spasmo che mima il desiderio dell’altro, spigoloso e sinuoso come un autoritratto di Egon Schiele, ma costretto da limiti psichici ed ambientali, alla mancata visibilità come figlio, amante, artista.
La performance alla quale ama abbandonarsi resta solo un momentaneo appagamento compiuto nella piena solitudine della sua stanza, così come la risata irrefrenabile è in verità un disturbo neurologico che si trasforma in guaito e non sortisce alcun effetto empatico, anzi lo inchioda alla sua stranezza di animale percosso.
La maschera sorridente con la quale decide di presentarsi al pubblico non può che essere, allora, il primo passo di una mutazione verso la parte aliena, dove al clown soccombente ed impacciato subentra lo spietato vendicatore delle angherie subite negli anni e che nessuna “ragione” può più consolare, neppure l’ambita e raggiunta partecipazione allo spettacolo televisivo preferito a fianco del gigionesco presentatore Murray Franklin/ Robert De Niro.
Ma come scrive Arthur nel suo brogliaccio di appunti se“basta una giornata storta per trasformare il migliore degli uomini in un folle”, e se “la cosa peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che tu ti comporti come se non l’avessi”, tutto sembra precipitare nell’inevitabile sdoppiamento o nel tracollo del cabarettista mancato.
Nulla di salvifico muove allora Joker verso la sua follia omicida, ma solo il risentimento reso meno doloroso dall’odio che, teatralizzato, trasforma a suo giudizio la vita in commedia.
La differenza col De Niro di “Taxi driver”(film accostato a “Joker”), e il suo soggetto con disturbo post traumatico, trasformatosi nel giustiziere-fai-da-te per liberare l’adolescente Iris (Jodie Foster) dal mondo della prostituzione, è abissale.
In Joker non c’è ombra di giustizia o di riscatto e né lui intende farsi portavoce di alcuna battaglia (oltre la sua):anche le accuse rivolte al pubblico televisivo alla presenza di Murray Franklin appartengono esclusivamente al tormentone costruito sul suo disagio personale; tant’è vero che lo stesso Franklin non percepisce alcun pericolo imminente, anzi continua a banalizzarlo in modo ironico e sprezzante.
Ma l’arte della diretta ha i suoi imprevisti e il gioco diventa fatale per l’uno (De Niro) e liberatorio per l’altro (Phoenix): è qui che Arthur diventa definitivamente Joker, quella maschera ferina nella quale, suo malgrado, un pubblico di diseredati si vuole riconoscere.
Nella morte di Murray Franklinnoi percepiamo, invece, non solo il passaggio di testimone dal “vecchio” istrione al nuovo, ma da un cinema memorabile come quello di Scorsese capace di descrivere l’epoca di una nazione e le sue irrisolte contraddizioni, ad un cinema astratto e antistorico che per mantenere il passo che ha reso grande l’altro, per ottenere quella potenza visiva, adatta la realtà alla finzione (scomodando persino i Cinecomic), in un corto-circuito contrario a quello che ha reso grande Martin Scorsese.
Ma il cinema, sappiamo, è per statuto mutevole, un miracolo non riducibile a facili paradigmi; sicuramente costruito sulla schizofrenica volontà di liberare la nostra parte nascosta (migliore o peggiore).Cosicché se abbiamo simpatizzato per Arthur lo sfigato, consapevoli che il desiderio di rivalsa appartiene agli uomini e non ai mostri, non ci dobbiamo però stupire se il rovescio della sua medaglia, in “Joker”, ahimè, nascondeva quella distopia che è in grado di consegnarci mani e piedi alla corte di un capo truculento quanto folle.
Forse è questa l’ultima storiella su cui ci ha voluto lasciare Todd Phillips, troppo simile allo stato delle cose per essere percepita come barzelletta.
Rolando Iaria
“Mutilavano braccia e gambe delle vittime, che erano consenzienti nonostante a volte finissero in sedia a rotelle, sostenendo che quelle lesioni erano la conseguenza di incidenti stradali, in modo da poter poi truffare le assicurazioni. Tra le vittime soprattutto malati e tossicodipendenti - Le vittime delle due organizzazioni erano per lo più soggetti ai margini della società: tossicodipendenti, persone con problemi mentali o dipendenti dall'alcol, soggetti in grave difficoltà economica, che attratti dalla promessa, mai mantenuta, di ricevere del denaro, davano il loro consenso a subire ogni tipo di violenza. Dalle indagini è emerso che in alcune situazioni i membri delle associazioni criminali somministravano in maniera rudimentale dosi di anestetico alle vittime, per tentare di ridurre e attenuare il dolore delle mutilazioni subite.”
Questa potrebbe essere la sinossi del film “Pietà” di K.K.Dook, Orso d’oro del 2013, ma è invece parte di una notizia di cronaca nostrana apparsa on-line l’8 agosto 2018 su TGCOM 24: storia nera e truce dei nostri giorni e non finzione come quella filmata dal regista coreano cinque anni prima, dalla quale sembra averne mutuato il misfatto, a conferma di quanto sia contemporaneo l’aforisma di O. Wilde secondo cui “la natura imita ciò che l’opera d’arte propone”.
La notizia sopra riportata, pur sconcertando, fa parte quindi della infinita narrazione nella quale ci siamo infilati sino al punto di non riconoscere il confine tra vero e falso, o per dirla con J. Baudrillard, i fatti dai suoi simulacri. Ciò che realmente accade sembra oramai aver ceduto il posto ad immagini più vere del vero (il simulacro), più seducenti e spettacolari della realtà stessa che le ha generate. E’ avvenuto veramente l’attacco aereo su Baghdad nella prima guerra del Golfo del 1991, si chiedeva a suo tempo il pensatore francese, o le immagini della contraerea irachena era una spettacolarizzazione televisiva costruita ad arte a dimostrazione di come un evento storico possa essere manipolato?
Per estensione della percezione vero/falso appena citata, ma rimanendo in ambito cinematografico, possiamo persino chiederci se la vicenda del “Canaro della Magliana”, anno 1988, resta ancora credibile perché testimoniata a suo tempo dallo stesso “torturatore” De Negri agli inquirenti o ci appare oggi più plausibile la rivisitazione nel “Dogman”(2018) di Matteo Garrone che (liberamente) ne riscrive il profilo del personaggio e il deserto umano dove matura l’omicidio? Se l’effetto manipolazione appartiene alla natura del Cinema, quanto può quest’ultimo modificare la percezione che abbiamo su verità assodate, se poi ne condividiamo il ribaltamento dal vero al falso o viceversa dove il mostro allora ci appare diverso persino simile a noi per indole e gentilezza?
Chiariamo subito che neppure in Dogman il suo protagonista è assolto né può rimanere impunito proprio perché il sangue versato (con o senza tortura) non può che estinguersi con la pena, eppure dalla visione del film avvertiamo una verità altra, sospesa, diversa da quella giornalistico-giudiziaria che già conoscevamo, una verità che appartiene al non-detto al non- pronunciabile né riconducibile alla sola narrazione del “canaro” e al suo tormentato racconto. Una verità che urlata nel buio si trasforma in eco, nel vuoto reale creato da una comunità indifferente al suo disperato richiamo.
Sono le immagini grigie del film, più eloquenti del testo, a renderci paradossalmente più chiara e vera la storia, quelle immagini capaci di intorbidire uomini e cose sin giù nel profondo del fondale marino prospiciente alla terraferma, trasformata in un unico pantano. Vivere lì, come vuole Marcello, parrucchiere per cani, cercando di “pettinare” altre vite contro-pelo è certamente impresa più ardua del rendere mansueti i molossi affidatigli, né può bastare il dono della grazia per le creature indifese, a esentarlo dall’offesa gratuita e dalla violenza bestiale che lo renderà vittima e carnefice.
Quella palude, in cui riconosciamo gran parte dell’attuale Storia italiana, obbliga non solo Marcello ma una intera comunità a rimanere in apnea e nel silenzio complice, squarciato solo dal ringhiare di uomini e cani. Quell’assordante silenzio intervallato dalle urla di Marcello al quale tornano solo echi lontani ed indistinti di una comunità altrettanto colpevole ma schiva non solo al riconoscimento del sacrificio “collettivo” ma neppure al più semplice sentimento di umana condivisione. Resta, allora, soltanto la muta solitudine scolpita sul volto dell’attore in quei lunghi minuti finali del film che restituiscono a Garrone e a tutto il cinema italiano una forza tale da poter essere riconosciuta dalla critica internazionale, quella sì capace, di rispondere favorevolmente agli echi dell’incredibile protagonista.
E di echi e di immagini, si nutre questo cinema. Voci basse che non hanno risposte e ci rimandano a diritti schiacciati o verità nascoste che solo la forza dello schermo a volte svela o anticipa, altre volte ricostruisce secondo quel “miracolo” che per Godard è il montaggio.
Diversi echi, diverse voci ascoltiamo ne “La casa sul mare” di Robert Guédiguian.
Non siamo più nel pantano di Dogman, tutt’altro, in uno scenario invidiabile, dove un gruppo familiare borghese e progressista è riunito nella vecchia casa del padre per assisterlo nella grave malattia che lo ha colpito. La malattia, però, con la quale devono fare i conti, non è solo quella dell’anziano padre, ma è un malessere più subdolo che viene da lontano e ha scavato nel profondo tutti i componenti e persino altri vecchi abitanti del borgo. Sono nodi dolorosi , frutto di perdite insanabili che il presente non riesce più a colmare, a tormentarne le esistenze. Dimenticare le cose belle dando forse un taglio netto e avere il coraggio di abbandonare definitivamente quei luoghi dove la vita è diventata impietosa, sembra l’unica risposta al destino di una comunità un tempo felice, e che ora non osa esercitare neppure la memoria di quei tempi andati.
E così mentre aleggia l’ennesima sconfitta dei singoli protagonisti e la voglia di abbandono, l’evento che riesce a mutare quell’area mortifera, si concretizza nell’improvviso arrivo di piccoli naufraghi clandestini che, invece, in quel pezzo di terra hanno trovato riparo per se stessi e il luogo dove seppellire il piccolo fratellino annegato.
Se la Casa sul Mare ideata dall’anziano padre sembrava allora aver concluso il suo percorso di costruzione di vite libere (come quelle del borgo), l’arrivo dei piccoli naufraghi restituisce a quella stessa idea una storia e una nuova vita, altrettanto meritevole di essere percorsa. Una vita nuda e coraggiosa, per questo degna, dalla quale potere ripartire, una vita- contro che ha nomi di bambini stranieri e profughi, sulle cui giovani vite però si intuisce l’ultima scommessa per restare tutti vivi.
Quelle voci all’unisono verso l’alto, a richiamo di chi non c’è più, di chi ci ha lasciato suo malgrado, è pari ad una preghiera urlata in un finale corale sempre più forte, che vuole svegliare coscienze sopite e restituire un nuovo senso a quei luoghi, a chi è rimasto, a quanti sono arrivati. Metafora di questa vecchia Europa davanti al bivio tra declino o rinascita? Forse no. Forse si.
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