Tonino De Pace

Tonino De Pace

Giovedì, 01 Febbraio 2024 09:08

Il presente diseguale e le bolle di sapone

Nonostante tutti questi anni di frequentazione di sale, rassegne, festival, occasioni varie di incontro, continuiamo a chiederci cosa sia il cinema, che in fondo altro non è, per dirlo in parole povere, che uno spettacolo che si rinnova. Ma cosa altro sia, se spettacolo soltanto o anche intervento sul presente ancora, nonostante tutto, non è chiaro. Forse tutto dipende da come ciascuno lo vive, se come rifugio dalla quotidianità o come parte della stessa quotidianità, diventando tema del presente anche il cinema del passato, del remoto passato, fino a quello delle origini e se è possibile ancora più indietro.

Crediamo che per chi ormai ci conosce, dopo 32 anni di attività, il nostro modo di intendere il cinema è quello rivolto ad una interpretazione del presente, tema non disgiunto dallo spettacolo che costituisce la forza originaria del cinema e la fascinazione speciale del racconto per immagini.

E allora forse poche volte come in questi anni, in quest’epoca di transizione il cinema diventa dispositivo necessario per estrarre dalla storia che stiamo vivendo - quella che chiamiamo cronaca e che diventa incalzante e che non ci dà respiro, che ci dà angoscia con le sue notizie sempre negative - il senso o il non senso dei nostri tempi. Tempi nei quali si sta transitando, tra mille fatiche e paure, guerre di confine, tragici esodi, intelligenza artificiale sostitutiva ormai alle porte, povertà in crescita e spaventose sopraffazioni, che l’orrore che si prova non è neppure sufficiente a manifestare il dolore davanti alla morte di innocenti.

Abbiamo per questo anche il cinema che ci aiuta a decriptare il presente fatto di disuguaglianze e diseguali segnali, segno di un progresso che si inceppa, a volte di un repentino ritorno ad un passato che vorremmo leggere solo sopra i libri di storia. Si proprio quel cinema che interviene con la sua carica di immaginazione, di realtà trasfigurata o di ineludibile immanenza. Quel cinema che immagina e ci fa immaginare un mondo diverso o manifesta, impietosamente, il nostro che ci è occluso o non vogliamo vedere.

È in questa prospettiva che quest’anno, per questa trentunesima edizione il titolo della rassegna Il presente diseguale è quasi venuto spontaneo, immediato, come una semplice didascalia sotto una fotografia.

Proviamo a raccontare in breve i temi della rassegna. Altrove, in questo stesso catalogo, abbiamo provato ad approfondirli avvalendoci anche e soprattutto delle esperienze e conoscenze di amici del nostro Circolo, nella dichiarata intenzione di radicare in varie direzioni le nostre relazioni, facendo diventare anche questo luogo, questa occasione, agorà di confronto di idee in un territorio dove questi spazi sono sempre più limitati se non inesistenti o quasi. Tema questo che avrebbe bisogno di una riflessione attenta e meditata per comprenderne le ragioni e gli effetti.

Ma in quella resistenza che ci distingue insistiamo nella volontà di diventare centro di un dibattito, con la provocazione di un cinema che rompe la stasi della quotidianità diventando inciampo e interruzione del consueto. Prendiamoli così questi e gli altri film, il cinema in generale per farlo diventare cinema vivente che interviene di soprassalto nelle nostre vite.

Sperimentiamo in questa nuova rassegna la scomposizione di un breve ciclo, due soli film - purtroppo i costi elevati ci obbligano ad un numero ridotto di film con un generale ripensamento della sua struttura così come finora l’abbiamo conosciuta - ma pensiamo che sia la loro qualità a segnare il ricordo, piuttosto che la quantità.

Il titolo del ciclo è esplicito Ecologia delle relazioni e si vuole provare a scrutare quanto l’atteggiarsi delle relazioni diventi forma di una più generale predisposizione alla possibile felicità, ad un possibile benessere dello spirito. Un anno difficile di Olivier Nakache e Eric Toledano, gli autori del pluricelebrato Quasi amici, in una commedia romantica e brillante esplorano il mondo della transizione ecologica, dello scontro tra culture che diventa incontro di solitudini, frammento amoroso sul presente non classificabile, tra desideri indotti e necessità di una concezione più spartana della vita che non sia di necessità, ma scelta convinta e determinata. Il secondo film del ciclo, ma l’ultimo della rassegna, è Il male non esiste di Hamaguchi Ryūsuke. Un racconto che indaga sulle dinamiche di una piccola comunità dove vigono le regole della natura che non possono essere infrante. Il film diventa il terreno della dialettica del presente tra invasività del progresso, soddisfazione di desideri indotti e violenza silenziosa contro l’altra dialettica quella imposta dalle leggi della natura il cui costo è altissimo. Un film che sconcerta per la sua potenza evocativa in una logica discorsiva che assomiglia ad una meditazione zen.

Le immagini scritte è il titolo del secondo ciclo, un doppio appuntamento che pone al centro del focus, anche di quello del Catalogo, il tema ampio del rapporto tra il cinema e i libri. I due film sono due esempi di come si possa indurre alla lettura, per fare scoprire il fascino delle molte vite che si possono vivere attraverso la lettura, come diceva Umberto Eco. È proprio il geniale filosofo e scrittore, studioso e immaginatore di mondi, scomparso qualche anno fa, ad essere protagonista del primo dei due film che proponiamo. La biblioteca del mondo è lo sguardo che Davide Ferrario ha gettato sulla labirintica biblioteca dello studioso piemontese dove una parte del suo appartamento, con vista sul Castello Sforzesco a Milano, era completamente dedicata ai libri che facevano parte della sua vita. Un film anche privato in quella violazione consenziente per raccontarsi agli altri. Tra provocazioni e divertimenti intellettuali, un film che sa acquisire l’immaginario dalle pagine di quei libri per riscriverlo e raccontarlo con le immagini.

Riteniamo che Aleksej German jr sia tra i cineasti più importanti tra quelli oggi in attività. Il suo è stato ed è sempre un cinema solido, ricco di una narrazione introspettiva, rispettoso della grande tradizione cinematografica russa, ma con lampi di geniale invenzione visiva. Sergej Dovlatov è stato uno scrittore russo emarginato dal regime comunista, tradotto ance in Italia, che purtroppo ebbe vita breve. Il Dovlatov - I libri invisibili di German non solo ci consente di scoprire uno scrittore di grande efficacia narrativa, ma ci porta dentro la sua vita un po' bohemien e della sua amicizia con il poeta premio Nobel Joseph Brodsky, anch’egli prematuramente scomparso. Un film che ha una forte personalità e un grande impatto visivo otre che narrativo, con una messa in scena originale che sottolinea da solo il lavoro di montaggio in una visione quasi orizzontale della storia contro la verticalità alla quale siamo abituati.

Il terzo ciclo dal titolo Diversamente figli, diversamente genitori nasce da quella necessità di gettare uno sguardo sul vasto tema della genitorialità, tra nuove pratiche di procreazione e le inevitabili polemiche sui profili etici di queste soluzioni, ma più largamente i tre film che abbiamo scelto lavorano sui sentimenti di identità e di affezione familiare. Indagini che si aprono con Amira di Mohamed Diab che nasce dalla stessa complessità dalla quale nasce il conflitto politico tra Palestina e Israele e questo film per nulla assolutorio per nessuna delle due parti, anzi problematico nella sua riflessione identitaria, se si vuole estremizza i temi di una divisione antica personalizzandoli nella figura della giovane protagonista, ma anche la possibilità di un doppio riconoscersi dentro i segni di due culture affini che reciprocamente si rifiutano.

DNA - Le radici dell’amore di Maïwenn è un racconto a tutto tondo sulla composizione asimmetrica di una famiglia, sulla superfetazione delle sue tradizioni e sulla impossibile riconduzione unitaria delle sue tradizioni. Una famiglia algerina a più voci in cui la tradizione, che diventa anche tradizione alla quale ispirarsi, viene diversamente interpretata.

Il ciclo si chiuderà con I figli deli altri di Rebecca Zlotowski che è un film passato ingiustamente in sordina, ma che oltre a confermare l’ottimo livello della cinematografia francese di questi anni, in grado di interpretare, anche sotto il profilo del rapporto sentimentale, la diversità dei nostri tempi con alcuni film - su tutti Saint’Omer di Alice Diop ma anche con L’accusa di Yvan Attal e trasversalmente qualcun altro - ha indagato con originalità sul ruolo dei genitori con particolare attenzione alla figura materna. I figli degli altri va di diritto iscritto in questo novero proponendoci un personaggio disponibile e aperto, capace di sopportare anche il dolore di un abbandono e con un sincero desiderio di diventare madre.

Una rassegna necessariamente più breve rispetto al solito. Ma anche questo è un segno dei tempi perché i tempi ci dicono che i costi sono aumentati a dismisura e divenuti insostenibili per una associazione come la nostra che, ci rendiamo sempre più conto, resta nel suo assetto economico un reperto del passato, pur intervenendo con costanza e dedizione esclusivamente sul presente. Le sette serate che trascorreremo insieme sono il punto di equilibrio per la sempre rincorsa autosostenibilità, quel punto cioè in cui la spesa prevista è compatibile con la previsione dell’incasso. Si tratta dunque di spazi, anche fisici, che si restringono, di occasioni di socializzazione che vengono sottratti in una città piuttosto immobile da questo punto di vista, lontana da ogni richiamo che sia legato alla cultura che non sia evento straordinario, ma solo quella quotidiana e pervasiva frequentazione di diffusione paziente di idee e di informazione. Dopo tutti questi anni - 32 quest’anno - siamo un po’ stanchi in realtà di lamentele, che restano inascoltate e irrisolte, segno di un totale, assoluto e colpevole silenzio da parte della politica rispetto alla necessità di vivacità culturale in città, buona a condire nella variante del green washing i discorsi e gli interventi, ma sfumando via i concetti, come le parole che restano solo tali e destinate a lasciare il nulla, come bolle di sapone eteree e colorate, ma senza peso e senza alcuna consistenza.

Tonino De Pace

Lunedì, 29 Maggio 2023 07:06

Fairytale - Una fiaba

Che Aleksandr Sokurov sia uno dei cineasti viventi più interessanti nel panorama del cinema internazionale, non è questione oggetto di discussione. Ogni suo film apre sguardi su mondi cinematografici che sembrano ancora non esplorati. Il suo cinema è in grado, quindi, di ricostruire lo sguardo dello spettatore, reinventando una dispersa magia del cinema. La capacità delle sue immagini di aprire gli occhi sugli abissi e sulla storia con una potenza visiva inusuale, diventa sempre ampia prospettiva di osservazione. Al contempo i suoi film dentro i quali ritroviamo un immaginario non replicato e non replicabile, sanno farsi indagine sui meccanismi segreti della storia, sulla dominazione come forma di espressione del potere. E il potere, a sua volta, nel cinema di Sokurov diventa gigantismo che si consuma nella sua stessa potenza, si elide in se stesso.

fairytaleI suoi film più famosi da Arca russa, autoctona cavalcata dentro la storia attraverso l’arte russa nello scenario di altrettanta magnificenza che è l’Ermitage, alla trilogia sul potere (Moloch, Toro e Il sole), quasi un trattato di storia recente dentro scenari a volte anche innaturali nei quali si perdono le coordinate spazio temporali per lasciare il posto ad altre modalità di percezione del reale, hanno segnato la storia recente del cinema.

È proprio su questo profilo che il cinema di Sokurov sembra attraversare, indenne, il tempo e lo spazio. Se infatti Arca russa è il gran film che in effetti è, questo accade perché quel museo, quei saloni, quella scenografia di imponente bellezza diventa universo espanso di un’intera nazione di immensa grandezza. La macchina da presa del regista sa trasformare il grande museo in universo sconfinato dentro il quale scorre la storia. Non solo immaginario cinematografico che assume i tratti del grandioso come in un sogno felliniano, ma il grandioso in sé che solo la macchina del cinema sa percepire. Per Fellini il cinema è costruzione dell’immaginario, per Sokurov l’immaginario esiste già ed è solo il cinema che sa catturarlo. Un immaginario che il regista russo identifica con l’arte, presente non solo nel film citato, ma centrale in Francofonia, ad esempio, dove il tema della sua salvezza e dei musei che la conservano durante l’ultimo conflitto mondiale si riflette sulla nostra stessa vita: Chi saremmo senza i musei, si chiede Sokurov nel suo film che racconta, quasi in un lontano e opposto parallelo ad Arca russa, la storia attraverso le vicende del Louvre, partendo dalla preoccupazione per una nave che naviga tra acque agitate con il suo carico di storia artistica nella stiva.

È in queste stesse prospettive che trova spazio nel suo cinema l’ultima sua laboriosa fatica Fairytale, visto in anteprima all’ultima edizione del Festival Locarno e più di recente passato anche sugli schermi del Torino Film Festival. Un’altra immaginaria cavalcata su qualcosa che forse già esiste e spetta solo al cinema scovarlo, un’altra incursione sulla storia e sul potere che l’ha dominata, un’altra consumazione e sgretolamento di quel potere che sembra disfarsi in un al di là dove tutto, finalmente, diventa verità.

Fairytale è una fiaba, una fiaba nera se si vuole, un cupo racconto dantesco che lavora in quell’oltrepassato confine che è l’esistenza umana. In uno scenario animato nel quale Sokurov prende a prestito le vertiginose scenografie di Piranesi, che ha inventato lo spazio verticale per le sue carceri, in quel gotico che bene si adatta alla smisurata potenza della sua immaginazione, per inserirvi i suoi personaggi, le sagome dei suoi personaggi - lavoro sul quale bisognerà per forza tornare - Hitler, Mussolini, Stalin e Churchill oltre che un Gesù Cristo stanco e deluso e una comparsa di Napoleone redivivo tra i defunti, primo interprete nel nuovo imperialismo. Ma si serve anche dell’immaginazione di Gustave Dorè che meglio di altri ha dato forma e tratto alle atmosfere infernali e son soltanto del poema dantesco. Disegni nei quali la grandiosità di paesaggi non terreni sembrava rimpicciolire le figure umane schiacciate dalle rupi e dalle acque infinite. In questo al di là dominato da Piranesi e da Dorè, in un costante dialogo tra scenario e storia, tra vita e morte, le quattro figure di ex potenti, ancora illusi di un loro dominio sulle folle festanti, sono viste ridotte alla loro essenza di piccoli uomini alle prese con giochini infantili, battute acide dell’uno contro l’altro, dominati da un ambiente che non è più terreno ed è già altra consistenza della prosecuzione della vita. Dominato da una costante ironia Fairytale smette da subito le vesti del film d’animazione, come viene innaturalmente e maldestramente definito, quasi un giochino minimo - e la sua uscita natalizia sembra avvalorare questa cattiva gestione del film - per diventare, invece, ulteriore lugubre riflessione sulla storia, soprattutto sulla storia di quella potenza che i tre dittatori, protagonisti e il leader inglese, hanno consapevolmente incarnato, per trovarsi ora, ridotti a sagome fluttuanti, nell’immaginario limbo che li accoglie dopo tanto spargimento di autocratica potenza.

Fairytale nel suo aspetto fiabesco è dunque sberleffo alla potenza e cupa riflessione sulla dittatura e al contempo durissimo giudizio storico che si aggiunge agli inappellabili giudizi che il suo cinema ci ha offerto sul tema. Le atmosfere dantesche in quella insuperabile immaginazione sospesa tra la nebbia di un invisibile mondo e la materialità eterea delle figure, sembra che davvero rivivano preparando forse quel film che Aleksandr Sokurov insegue da tempo e che potrebbe costituire, su queste premesse, davvero l’apogeo del suo cinema, quella Divina Commedia di cui questo film costato tre anni di duro lavoro, sembra anticiparne i tratti, cominciando a far vivere le atmosfere.

Qualche parola va spesa per questo lavoro così faticoso e difficile per giungere al risultato che si spera siano in molti a potere valutare. Sono state centinaia le ore di materiali girati su Mussolini, Hitler, Stalin e Churchill che il regista ha visionato, ore e ore di proiezioni dalle quali con cura e pazienza sono state isolate le sequenze lunghe o brevi che sarebbero servite al film. Sono state letteralmente estratte da quei filmati originali, si direbbe ritagliate, staccate e così ottenute riversate in Farytale. Un lavoro di adattamento dei movimenti dei soggetti di quelle sequenze ha completato la paziente opera di traslazione per conferire al movimento, così estrapolato dall’originale, una logica nuova all’interno del film.

Un altro complesso lavoro è stato quello del doppiaggio delle quattro figure dei protagonisti. Ciascuno di loro è stato doppiato nella propria lingua di appartenenza, compreso Gesù in quell’antico aramaico oggi quasi introvabile ed è stata dura la ricerca di un doppiatore in grado di sostenere la sfida. I nuovi dialoghi, frutto della scrittura del film e detti dai doppiatori, sono carichi di un’acida ironia in cui risaltano i tratti quasi puerili dei quattro personaggi storici. I sorrisi ai quali Fairytale induce sono di fatto una riflessione sulla dimensione che Sokurov attribuisce al potere e ai suoi interpreti.

Un lavoro che non è soltanto tecnica supportata dalla tecnologia, ma anche un’operazione che la dice lunga sulla grande visione della storia del geniale regista russo. Una storia che è contemporaneità, che è trasporto in questa nostra vicenda dell’oggi, una storia del potere che non è mai morta, che attende viva, sebbene sgretolata in un limbo. Una memoria che non può spegnersi per un cinema di immensa grandezza che non smette mai, con i grandi, di riscoprire se stesso e le sue potenti armi dell’immagi(nazio)ne.

Tonino De Pace

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Titolo originale: SKAZKA
Regia e sceneggiatura: Aleksandr Sokurov
Materiali d’archivio: Pierre-Olivier Barate, Alyona Shumakova, Yaroslav Klykov (coordinamento internazionale),
Denis Fedorin (lavorazione materiali storici)
Effetti visivi: Alexander Zolotukhin, Katerina Solovyova, Vitaliy Suvalov, Alexander Yefimov, Polina Ivanova,
Yuri Mokiyenko, Stepan Masychev, Evdokiya Bannaya, Dmitry Ushanov, Ekaterina Yermolayeva
Musiche: Murat Kabardokov - fantasie di temi di compositori europei, russi e sovietici del XIX e XX secolo provenienti dall’archivio personale di A. Sokurov, Extraliscio Primavera notturna di Mirko Mariani & Betty Wrong
Lingue: Aramaico antico, Francese, Georgiano, Inglese, Italiano, Tedesco
Cast: Winston Churchill, Adolf Hitler, Benito Mussolini, Iosif Stalin, Igor Gromov (Forza Suprema), Alexander Sagabashi e Michael Gibson (voce Churchill), Vakhtang Kuchava (voce Stalin), Lothar Deeg e Tim Ettelt (voce Hitler), Fabio Mastangelo (voce Mussolini), Pascal Silvansky (voce Napoleone Bonaparte)
Produzione: Intonations Production
Distribuzione: Academy Two
Belgio/Estonia/Russia, 2022
Durata: 78'
Domenica, 12 Marzo 2023 23:00

Focus - L'anno che verrà

Tra disagio e quotidianità -

Un interessante sguardo sul mondo della scuola lo ha gettato, pur in piena chiusura scolastica durante la pandemia, l’inosservato, ma meritevole, Marco Polo, un anno tra i banchi di scuola di Duccio Chiarini. Un’operazione di qualità che nella sua originale e compiuta forma esteriore, resta pregevole per le premesse e le conclusioni alle quali giunge. Un film che, scansando luoghi comuni sul mondo scolastico, sa lavorare con intelligenza sul progressivo e interattivo (tra allievi e docenti) crearsi della formazione scolastica.

Quanto al resto, in tema di convivenza scolastica e strutturazione dell’insegnamento, viene in mente, senza andare troppo indietro nel tempo, almeno La classe di Laurent Cantet che aggredisce il tema della convivenza tra l’insegnante e suoi indisciplinati alunni.

L’anno che verrà continua, quindi, nel solco già da altri tracciato, e si inserisce con autorevole piglio nel tema dell’istituzione scolastica. Lo fa con una sua propria personalità, con un taglio e un registro altrettanto originale, avvalendosi di un cast di qualità, nonostante si tratti di giovani attori non professionisti, ma reclutati dall’occhio attento del responsabile del casting. Si tratta di giovani che provengono dallo stesso quartiere dentro il quale si svolge il racconto, sapendo assorbire da quell’ambiente ogni utile suggestione che diventa pietra angolare del film.

Diciamo subito che L’anno che verrà, possibile traduzione del più aderente La vie scolaire, per l’ampiezza ancora più comprensiva che presuppone, sa essere piacevole e perfino divertente, nonostante i temi trattati siano drammatici, a volte tragici e comunque raccontino del costante disagio della gioventù della immediata banlieue parigina come è quella di Saint Denise. È qui che si svolge la storia e dove la troupe ha trovato la disponibilità di una vivace e innovativa dirigente scolastica che ha accolto con favore la richiesta di utilizzo della scuola.

Un film corale che inizia al principio dell’anno scolastico e si chiude con l’inizio delle vacanze estive. Nella scuola è arrivata la nuova e giovane insegnante che coprirà il ruolo di Vicepreside. La scuola ha le classi cosiddette NOP nelle quali, come in una specie di sostegno, si intensificano alcuni insegnamenti al fine del recupero degli allievi più disagiati, anche di quelli che soffrono del divario economico con i loro compagni. Samia la giovane Vicepreside arriva dall’Ardèche e scopriremo che ha anche altre ragioni per lavorare a Saint Denise. Il suo lavoro è quello di fare da tutor ai ragazzi instaurando, ove occorra, un legame con le famiglie. Ma in particolare la giovane Samia tiene d’occhio Yanis.

È proprio Yanis, interpretato dal giovanissimo ed espressivo Liam Pierron, il personaggio attorno al quale la storia, le storie, prendono forma e si consolidano. Yanis è un personaggio dalle molte affinità biografiche con Mehdi Idir, uno dei due registi ed è in questo microcosmo da periferia, a trenta minuti da Parigi con i mezzi pubblici, in un luogo in cui i ragazzi, in maggioranza di origine algerina e maghrebina in generale, vivono le loro giornate tra piccolo spaccio e immaginati progetti sul futuro. È in questa specie di artefatto e credibile realismo, spezzato da un ritmo mai interrotto che L’anno che verrà sa mostrare le sue potenzialità, la sua insospettabile introspezione in quel mondo che appare appena fotografato e che invece percepiamo nella sua integrità. È una specie di manifesta autenticità di ciò che si guarda a dare vita a quella linfa benefica che scorre nelle immagini e cattura l’attenzione anche dello spettatore più scettico. Idir e Grand Corps Malad - dietro il quale si cela Fabien Marsaud che ha acquisito questo pseudonimo a causa di un incidente che ha ridotto la sua mobilità - nella scrittura e nel lavoro sul set hanno saputo coltivare questa originalità quasi esclusiva, anche con la rilettura di tracce autobiografiche, conferendo al film quel taglio lieve pur dentro un’ambientazione in cui si sente il tema del disagio dal quale nascono le microstorie di cui è costellato.

È in questo ambiente che cresce e vive Yanis, turbolento, anche provocatore e maleducato nei confronti del suo (antipatico) professore. Ma è nel privato, soprattutto con il suo amico Fodé, che Yanis sa mostrare il suo vero carattere, il suo rapporto con le cose, la coscienza dei propri limiti, le difficoltà e lo scetticismo per un futuro legato al cinema. Yanis si fa protagonista di uno spaccato commovente nel quale il suo doppio atteggiarsi, tra l’immagine pubblica e quella privata, si evidenzia e l’immagine sa percepire il vero nella vitalità di quella spontanea emozione. Yanis mostra il suo volto e la sua esperienza sa diventare vademecum interpretativo del comportamento giovanile. Un’autocritica che raggiungerà il culmine nel finale del film e tutti questi comportamenti faranno ricordare quelli di Antoine Doinel. Anche Yanis fa il suo diavolo a quattro nella scuola e rischierà l’espulsione, ma il suo angelo custode, l’attenta Samia, e la sua naturale inclinazione ad una verità dalla quale non si può prescindere, veglieranno su di lui.

L’anno che verrà sa essere il film dei fatti quotidiani e nella sua ostentata e vera leggerezza, senza pretese sociologiche o interpretative dei fenomeni sociali, sa farsi portavoce di quel disagio che risiede nell’assenza di prospettive che, purtroppo, riguarda anche il mondo degli adulti. Il racconto di Grand Corps Malad e Idir smette mette di essere, o meglio non è soltanto, un film sul mondo della scuola, pur mantenendone tutte le caratteristiche, per diventare qualcosa di più ampio, un tentativo di guardare ai rapporti familiari di questi ragazzi, in particolare con i genitori in relazione alla scuola, ad esempio. Un rapporto che Samia sa costruire, nel rispetto, ancora una volta, di quell’equilibrio, indispensabile, tra esigenze dell’istituzione scolastica e ambiente sociale e culturale di riferimento. È l’attuazione fruttuosa del suo progetto che vede coinvolte costantemente le famiglie nella gestione degli indisciplinati comportamenti dei ragazzi, delle loro turbolenze che diventano così terreno comune di intervento, tra famiglia e scuola.

In questa insistita quotidianità, è forse proprio la gestione del mondo scolastico a diventare centrale, in quell’ottica di preparazione alla vita che il percorso didattico, interamente considerato, dovrebbe essere. Non a caso, i due registi, come essi stessi dichiarano, hanno scelto di raccontare il periodo scolastico e di vita corrispondente alle scuole medie. Sono quelli gli anni in cui la formazione dei ragazzi è più urgente e per converso, anche più difficile e sottoposta, come avviene sempre, alle numerose e insidiose sollecitazioni. È in questa ottica che il film sembra svolgere il suo ruolo con egregi esiti, in quel veritiero rapporto umano che soprattutto Samia e il professore Messaoud (Soufiane Guerrab), sanno instaurare con i ragazzi e nel loro, mai trascurato, né affievolito, tentativo di patteggiare e contemperare le esigenze della scuola con l’istintivo rifiuto dell’attenzione per insegnamenti che i ragazzi reputano distanti dalle loro reali esigenze che sono soprattutto economiche. Comprendere a fondo questa frattura è arrivare alla radice del malessere, non sarà forse utile a guarirlo, ma aiuterà ad aprire una prospettiva di sguardo differente in questi giovani così marginali rispetto all’impero, ma così vicini ai suoi nocivi effetti.

È su queste riflessioni che ci si accorge, al di là della sua piacevole visione, di quanto L’anno che verrà centri il tema di questi difficili rapporti, di come sappia tenere in straordinario equilibrio tutti questi profili, insistendo con leggerezza sul tema dell’interazione con l’articolato mondo dei ragazzi ai fini di un migliore funzionamento del sistema scolastico, soprattutto nelle aree più difficili, come le tante Saint Denise dei nostri luoghi.

È un comune sentire di cui L’anno che verrà, insieme al citato Marco Polo, un anno tra i banchi di scuola, sanno farsi cinematografica ed efficace manifestazione che forse Ministri, Dirigenti, Responsabili a vario titolo, allievi e genitori, dovrebbero vedere per ricostruire, su queste prospettive, il tessuto connettivo di un sistema di istruzione che sia adeguato ai tempi e alle esigenze per tutti gli attori e i protagonisti dell’ampio scenario.

di Tonino De Pace (sentieriselvaggi.it – 7 ottobre 2020) 

Venerdì, 24 Febbraio 2023 22:19

Focus su "Amanda"

AMANDA – QUEL GIORNO D’ESTATE

C’è il futuro e il passato nel presente di Amanda.

Amanda solo molti anni dopo avrà compreso che una partita di tennis non è mai finita fino all’ultima palla giocata e che, soprattutto, la vita non finisce mai di stupire e ci indica da sola dove trovare l’energia per superare i traumi dopo una tragedia, dopo una terribile prova che muta radicalmente il nostro mondo, stravolgendo ogni coordinata della quotidianità che si vive.

Il rischio che Mikhaël Hers (già regista di Ce sentiment de l’été), nel realizzare un film in fondo semplice come Amanda, decide di prendere non è trascurabile.

Sullo scivoloso terreno del terrorismo Hers decide di guardare agli effetti collaterali senza entrare nel merito né nella complessità del fenomeno alla ricerca delle cause. Piuttosto il regista parigino prova a catturare l’attimo storico in una prospettiva futura, senza guardare alle conseguenze sociali che il gesto folle di un omicidio collettivo comporta. Amanda piuttosto che un film sul presente è dunque un film sul futuro, dove i sentimenti che lo percorrono diventano cura necessaria a ricostruire il tessuto vitale attorno alle gravi ferite che si sono aperte nella vita di Amanda e dello zio David che le farà da tutore.

Da tempo la cinematografia francese ha dimostrato di sapere utilizzare molto bene le dinamiche familiari, basti pensare alle fitte relazioni dei film di Guédiguian o a certa filmografia di Ozon ovvero a film più recenti come ad esempio I figli degli altri di Rebecca Zlotowski o agli estremi risvolti di una maternità conflittuale come in Saint’Omer di Alice Diop o, ancora ai risvolti psicologici che si possono leggere in un film recente come L’accusa di Yves Attal.

È proprio dentro la novità dei rapporti familiari larghi e insoliti che il film di Hers si sviluppa, in quella assidua scuola quotidiana per entrambi i protagonisti, dentro la quale ritrovare le ragioni del futuro con quell’insegnamento del passato necessario retroterra di emozioni e sentimenti. È in questa stessa prospettiva che Hers lavora sui dialoghi sapendoli rendere credibili ed efficaci. Va riconosciuto il merito a questa cinematografia di avere coltivato negli anni un’attenzione particolare alla scrittura dei dialoghi, non crediamo in fondo che si tratti di una scuola, ma sicuramente di una tradizione che si rinnova ancora in questo presente. Dopo le tracce di un passato nobile (Truffaut, Rohmer, veri inventori di dialoghi e poi gli altri che sono seguiti anche nel cinema più recente come il Philippe Le Guay di Moliere in bicicletta e Le donne del 6° piano - entrambi proposti nelle rassegne del Circolo “Zavattini” - e molti altri) film come Amanda, ma anche quelli citati in precedenza come Saint’Omer ad esempio, vivono sulla sensibilità delle parole, sulla verbosità asciutta del testo, sulla essenzialità della parola. Così come i dialoghi nell’aula giudiziaria nel citato L’accusa o nel non dimenticato - e già visto nell’ambito della rassegna 2017 - La corte di Christian Vincent, non mancano di svelare le psicologie dei personaggi, il loro retroterra culturale, il loro profilo sociale.

I dialoghi di Amanda lavorano su quello stesso profilo minimale sul quale il film si assesta, ma non per questo lo sguardo di Hers è meno acuto nel restituire allo spettatore il senso di un presente in funzione di un futuro ancora sconosciuto, ma tutto da costruire.

È un’ennesima complessa ricostruzione che il film ci propone - ne abbiamo vissute molte al cinema di ricostruzioni di una vita e di una personalità - attraverso gli occhi e i desideri di una bambina che, all’improvviso, perde il principale punto di riferimento e deve, malgrado tutto, costruirsene altri, immaginando una partita da giocare fino alla fine. David e Amanda ridefiniscono il concetto di famiglia che resta fondato ma solo in parte sul legame genetico, quanto piuttosto sui postulati sentimentali che i due provano a condividere. La piccola Amanda con le sue esigenze infantili e lo zio, ventiquattrenne, con l’invenzione quotidiana di questa nuova paternità caduta tra capo e collo nella sua vita, in questa prospettiva diventano i protagonisti di un racconto più profondo che non coinvolge solo il tema eterno della elaborazione del lutto, ma piuttosto l’instaurazione di regole di convivenza che debbano superare i soliti steccati di un rapporto genitoriale per gettare le fondamenta di un nuovo ordine familiare in funzione dei nuovi presupposti sui quali si è generato. Una prospettiva non troppo lontana dalle teorizzazioni familiari complesse alle quali ci ha abituato Hirokazu Kore’eda (una delle quali completerà questa rassegna) e che sembra, complessivamente, vogliano ridisegnare le mappe familiari puntando al peso dei sentimenti, piuttosto che ai legami di sangue. Amanda non viaggia su questi estremi confini sui quali, invece, ritroviamo le storie del regista giapponese, ma sicuramente, nel livello subliminale sul quale ogni film lavora, sa imbastire un racconto nel quale la componente di una familiarità diversa non solo è possibile, ma diventa necessaria in una più complessiva mutazione sociale alla quale si assiste.

In questo passaggio, ma non solo in questo, il racconto di Hers sa trasformarsi in una storia più collettiva, raccontando il microcosmo familiare e la tragedia che fa da scenario e fondale sul quale si muovono David e Amanda, ma con lo stesso smarrimento con il quale il macrocosmo sociale vive la paura e il senso di un oscuro futuro. Ma allo stesso tempo, il film di Hers ha il pregio di sapere indagare con estrema leggerezza - ed è forse questo il suo pregio maggiore - sul senso del vuoto dell’assenza, del vuoto delle parole mancanti e di rimarcare, quanto di questa assenza si renda evidente nei piccoli gesti in tutto ciò che diamo per scontato, in quella vita quotidiana che dimentichiamo in fretta apparentemente senza peso in una sorta di “usa e getta” connaturato alla stessa fluidità del quotidiano.

Il film di Hers forse potrebbe trovare accuse di sentimentalismo, di buonismo a tutti i costi. Ma questo racconto a prima vista legato alla languida poesia di un’orfanella, traduce, al contrario e anche più largamente, il senso di un futuro incerto e ci obbliga a chiarire quali siano le prospettive di un’infanzia già oppressa, affamata e derubata. Il futuro che implica il presente dei conflitti bellici o di quello che ci disegnano le terree previsioni dell’assetto di un ambiente via via sempre più inospitale.

È per tutte queste ragioni che Amanda smette di essere un film sulla contemporaneità per trasformarsi in una riflessione sul futuro e sulla paura, sulla fiducia, ma anche sull’assenza, sull’insicurezza, sul controllo di Polizia anche al parco. La riflessione di Hers, in fondo è semplice, ma non semplicistica e non risolve il problema (come potrebbe d’altra parte?), ma prova a riflettere per offrire una forse minimale - ma né semplice né scontata - risposta per una bambina di sette anni in quell’assenza improvvisa e in quei sentimenti che devono essere altrove indirizzati nel ricordo di un passato mutato in un presente diverso senza spiegazioni, ma con molte altre domande.

Giovedì, 13 Febbraio 2020 20:08

Il segreto della miniera di Hanna Slak

Alija è un ragazzino bosniaco costretto, a causa della guerra, ad abbandonare il suo villaggio. Quando sarà ormai cresciuto e sarà anche padre di due figli, farà il minatore. Nella sua memoria resterà la guerra che ha letteralmente dilaniato un Paese intero e oggi continua ad essere ombra cupa sulla sua vita. È il ricordo della sorella Mirsada, morta nel genocidio perpetrato contro la sua gente nel villaggio d’origine a non dargli pace.

Oggi il suo presente è di nuovo in bilico, la crisi incalzante mette in forse il suo posto di lavoro. Sarà incaricato di ispezionare una miniera chiusa da anni, ma un altro orrore lo attende in quelle profondità e la sua scoperta diventerà scomoda per le autorità del luogo che hanno fretta di chiudere la vicenda e seppellire per sempre un pezzo di storia che giace dimenticato in fondo a quei pozzi.

il segretoLa regista e sceneggiatrice slovena Hanna Slak, qui alla sua prima prova nel lungometraggio, sa costruire un dramma in crescendo nel quale, intersecando la recente storia dei Paesi balcanici, con quella meno recente della seconda guerra mondiale, esalta il ruolo del suo protagonista che vive e combatte affinché quel “restare umani”, non sia solo uno slogan, ma una ragione di vita. Il realismo concreto del film finisce con il riflettere la verità dei fatti sui quali è fondato e che hanno visto come protagonista della vicenda il vero minatore Mehmedalija Ali che come il personaggio del film perse tutti i parenti maschi nella strage di Srebrenica del 1995. Gli salvò la vita l’essere già emigrato in Slovenia. La scoperta che fece e che coinvolgeva direttamente la storia dell’ex Jugoslavia e oggi della Slovenia, testimoniava un altro genocidio commesso sui profughi sterminati dai partigiani di Tito.

La storia e la memoria sembrano sommergere il film condensando, in quell’accentuato e imprescindibile realismo che lo avvolge, il disagio del presente davanti alle colpe che la storia distribuisce. Alija si sente responsabile, ma anche colpevole della sua stessa sopravvivenza ed è questa l’angoscia che quotidianamente sembra letteralmente seppellirlo. Ci accorgiamo che Il ricordo sembra avere un peso che si specifica in una misura personale e in una collettiva, condivisa che in questa prospettiva fatica ad essere accettata. La miniera, con i suoi cunicoli, le trappole, l’angoscia della costrizione e di un buio viscerale, diventa emblema e simbolo dello sprofondare nel proprio passato, dello scavo incessante alla ricerca di una via d’uscita, di una riconciliazione che sia riscatto personale ed emendazione di colpe. La necessità che Alija sente - e tutti gli Alija che in lui si riconoscono - è quella di dare pace al passato dal quale ancora oggi ci giunge l’eco di quella innocenza ferita e sanguinante che silenziosamente, ma profondamente, segna ancora il presente avvolgendo la sua e le nostre vite.

Hanna Slak sa restituire l’inarrestabile inquietudine del suo protagonista, che mostra nella intensa interpretazione di Leon Lučev, le inguaribili ferite che lo segnano ma anche la sua salvezza che avviene con l’immergersi reale e metaforico nella miniera, rappresentazione della coscienza nella quale ritrovare il suo passato, per una pacificazione che però non trova adeguato riconoscimento nel sentire collettivo che non accetta ciò che il minatore ha scoperto in fondo a quella miniera. Al contrario di Alija, ciò che si vuole è invece il seppellire il passato, fare muro verso la memoria che diventa luogo inaccessibile, ma anche questione centrale nel rapporto tra passato e presente, in quelle ferite lasciate aperte che germinano con frutti malevoli nei nostri corpi sociali.

Hanna Slak, come accade ormai di frequente nelle storie che diventano soggetti per i film di quell’area geografica - come si diceva - immerge il suo film in un realismo lineare, quasi documentaristico dal quale è difficile astrarsi e che per questo diventa elemento ineludibile per ogni ragionamento che riguardi i temi e la struttura di queste opere. La necessità sembra essere quella di offrire una immediata riconoscibilità, di non doversi staccare da una quotidianità protettiva, domestica, intima e anche generosa di sentimenti, soprattutto familiari. Così accade anche in Il segreto della miniera, che ha il pregio di fare rifluire nella figura del protagonista il carico smisurato della vicenda di cui si trova ad essere protagonista. Nella realtà Mehmedalija Ali nelle sue ricerche, durate un paio d’anni, ha ritrovato in fondo ai pozzi della miniera ormai abbandonata, circa quattromila corpi compresi quelli di moltissimi bambini. È proprio davanti a questo orrore, che non poteva che fare correre il pensiero al suo villaggio, a quella spaventosa strage di Srebenica nella quale il 25 luglio del 1995 furono uccisi circa 8000 persone e che vide il vero Alija salvarsi per un puro caso che divenne anche la ragione del suo profondo senso di colpa. È qui che il film diventa omaggio silenzioso e personale, tutto condensato nella pensosa figura del protagonista, a quella ferita di immense proporzioni che ancora non può trovare guarigione nella mente di chi l’ha vissuta, nelle mente di chi, come l’operaio bosniaco, può ancora essere testimone di quella strage che avvenne nel cuore di un’Europa sempre più moderna, ma anche sempre più colpevolmente distratta e sorda verso il silenzio di tutti quegli innocenti che dentro i suoi confini hanno trovato una morte ingiusta e violenta.

Il cinema non può fare molto e, forse, in fondo non gli spetta nemmeno fare molto, ma il film di Hanna Slak, con la distribuzione di Cineclub Internazionale, si fa racconto dell’operazione di purificazione compiuta da Mehmedalija Ali sapendo mettere in scena con sintesi solo appena, a volte, un po' eccessiva, le fasi di questo complesso processo che dal riconoscimento della colpa arriva alla sua emendazione e alla riconciliazione con la storia del proprio pesante passato.

È in questa dimensione che il piccolo film sloveno si fa intenso, sicuramente doloroso nell’accidentato percorso di Alija, ma decisivo nell’accettazione finale del passato, nella consapevolezza delle proprie radici per trasformare al meglio il presente che ci è dato.

Tonino De Pace (pubblicato su sentieriselvaggi.it)

Titolo originale: Rudar

Regia: Hanna Slak

Interpreti: Leon Lučev, Marina Redž, Zala Djuric, Boris Cavazza, Maj Clemenc, Lara Andrejević

Slovenia, 2017

Distribuzione: Cineclub Internazionale

Durata: 103’

Giovedì, 13 Febbraio 2020 20:02

Hammamet di Gianni Amelio

HAMMAMET di Gianni Amelio

In L’autunno del patriarca, romanzo del 1975 che il genio creativo di Gabriel Garcia Marquez diede alle stampe dopo il grande successo del precedente Cent’anni di solitudine e con il quale intendeva affrancarsi da questo sia per intenti sia per scrittura, lo scrittore colombiano ha inventato la figura di un despota, ormai isolato dal mondo, attorniato da uno stuolo di fedelissimi adulatori. Nel giorno della sua morte i cittadini irrompono nel palazzo e scopriranno i luoghi da dove il dittatore amministrava il suo potere incontrastato. Il personaggio del romanzo non ha nome ed è chiamato il Presidente.

…ho sempre creduto che il potere assoluto sia

la realizzazione più alta e più complessa dell’essere umano

 e che per questa ragione riassuma forse ogni sua grandezza e miseria.

Gabriel Garcia Marquez

 … bisogna allontanarsi dall’isola per vedere l’isola,

e non ci vediamo se non ci allontaniamo da noi,

se non ci allontaniamo da noi stessi…

José Saramago

Il romanzo è il racconto di un crepuscolare declino, di un potere ormai offuscato, perduto in una irrimediabile solitudine e solo la morte potrà restituire al dittatore il volto umano del potere, la morte che, come insegnava Pasolini, crea il montaggio definitivo della vita. Hammamet, il film di Gianni Amelio, che tra vero e falso riscostruisce gli ultimi mesi della vita di Bettino Craxi, ha molte affinità con questo straordinario e sperimentale romanzo di Marquez. Innanzitutto in questa specie di anonimato che spinge verso una interpretazione universale del personaggio protagonista del film.

hammametIl protagonista, un politico malato e rabbioso, vero leone in gabbia, consapevole delle sue colpe, che amministra ancora un potere magnetico sulle persone e, nonostante tutto, è ancora in grado di impaurire e quindi di essere degno di rispetto, magari forzato e non autentico, ma ancora oggetto di una considerazione che proviene dalla sua storia, non ha nome, è chiamato “il Presidente”. Nella sua villa-fortino di una Tunisia vera, ma scenario e fondale della tragedia, il Presidente vive la sua malattia, il suo calvario personale, attorniato dalla famiglia, la figlia Anita, la moglie rediviva dopo anni di separazione e di indifferenza, a volte il figlio, che vive in Italia, succube e vittima della gigantesca presenza del padre.

Dentro tutto questo c’è il recente passato fatto di storia politica italiana, i processi, i giudici, le confessioni, le verità mai dette, l’incapacità di mantenere relazioni amichevoli come una specie di prezzo da pagare in cambio di un potere incontrastato. Vincenzo, l’amico operaio diventato un suo fedelissimo e ora suo contestatore, suicida per non pagare le colpe di una connivenza. Fausto il figlio di Vincenzo, schiacciato dalle colpe del padre e accusatore del Presidente che lo ospita nella sua villa, non per magnanimo comportamento, non per ricambiare la benevolenza del padre, ma per utilizzare la sua “ingenuità”, lasciare un testimone della sua verità e Fausto, oppresso da queste confessioni non ha futuro, non ha speranze.

C’è, in tutto questo, lo sconforto di una silenziosa contemplazione della dissoluzione, di una centralità che non c’è più, che non lo riguarda più. È perfino finita la curiosità morbosa dell’uditorio, non ci sono più i giornalisti dietro la porta ad attendere, ansiosi, le notizie del Presidente malato. Un Presidente che ha il volto (ir)riconoscibile di Pierfrancesco Favino, genio di mimetizzazione e vero camaleonte dello spettacolo che dopo il Buscetta di Bellocchio, compie un altro capolavoro d’attore nella sua trasformazione fisica, vocale e gestuale e perfino nelle posture, regalando l’originalità naturale del personaggio attraverso quelle forme che sembrano restituire la nitidezza della contemporaneità. Amelio ripercorre comunque non la storia d’Italia degli ultimi anni, Amelio fa il regista e ad un regista non può essere chiesto di essere né uno storico, né un commentatore politico e Hammamet non è un film, come si diceva un tempo, di impegno civile, non è neppure una biografia, né parziale, né limitata nel tempo e si sbaglia perfino a chiamarla ricostruzione di un periodo.

Hammamet si inserisce perfettamente nella cinematografia del regista calabrese e costituisce un ulteriore tassello di quella lunga marcia che l’autore va facendo da quando è uscito il suo primo film, un po’ come per Clint Eastwood, il suo cinema ha sempre costituito una ricerca della e sulla figura paterna, amorevole e sbagliata, in fuga e malata, sola e disperata. Da sempre il suo cinema, più antico o più recente, ha ruotato attorno a questo tema che Amelio ha affrontato sotto varie e mutevoli prospettive, alla ricerca di una soluzione, alla ricerca di risposte alle sue domande, alla ricerca di una figura ideale che possa chiudere il cerchio e considerare conclusa la ricerca. Se scorriamo la sua filmografia il tema del padre è una costante e Hammamet ne costituisce un altro punto d’arrivo. Quanti padri in questo film: il Presidente è un padre, ma anche Vincenzo è un padre, poi c’è il padre del Presidente che è Omero Antonutti, il padre già padrone per antonomasia, forse qui alla sua ultima apparizione. Il movimento ellittico, quasi un’orbita, che Gianni Amelio compie attorno alla figura del suo protagonista è posta in relazione alla finalità di scoprire l’origine della paternità mancata del nostro Paese con la consapevolezza dell’oggi.

Non c’è rabbia nel cinema di Amelio, non c’è più da Lamerica, altro film nel quale la ricerca di un padre resta un sottotesto per una nazione intera, ma soprattutto idealmente ritrovato, per i due faccendieri senza scrupoli, in Spiro. Un altro personaggio che sta per chiudere l’esistenza nella più assoluta e dimenticata solitudine, in fondo così vicino, nonostante tutto, a questo Presidente che vive in Tunisia che tra agiatezze e possibilità economiche vicino alla fine della sua vita terrena nell’angosciosa solitudine che il potere gli ha consegnato. E allora Hammamet per proprietà transitiva diventa un film sul potere (paterno), una ampia e meditata riflessione sul potere e sul suo prezzo, sul valore del potere nel mercato della politica. Un bene immenso fino a quando ne gestisci la borsa, oggetto di una svalutazione assoluta e quindi un bene del tutto privo di valore, quando quei cordoni restano chiusi. Diverso, invece, il valore sentimentale della paternità familiare che va ben oltre il tempo effettivo della vita, un valore che resta solido nel tempo e non conosce svalutazione.

L’incontro tra il Presidente e il padre sul tetto del Duomo di Milano non è solo wendersiano, laddove lo sguardo si fosse potuto allargare sulla amata città lombarda, ma sintetizza il tragitto e il transito, l’irredimibilità delle colpe, ma anche la solidità dei sentimenti paterni. Amelio ha voluto essere anche padre ed è su questa controversa figura che il suo percorso artistico trova, da sempre, la soluzione alla naturale inquietudine dell’artista. La tenerezza, Le chiavi di casa, Ladro di bambini, Così ridevano, Colpire al cuore, quanti padri hanno popolato le sue immagini e quante forme ha assunto la sua riflessione e Hammamet, senza diventare l’approdo definitivo, vive in questa dimensione e non intende confrontarsi con la storia, e se lo fa ciò accade sempre nell’ottica di una paternità sbagliata, non in quella di un’analisi politica del tempo, non in funzione della storia, non in rapporto ad una interpretazione storico-politica-sociale degli anni ’90. Non è questo il compito che Amelio si è dato. La figura di Craxi è il grimaldello per entrare in un privato inaccessibile in cui domina la gigantesca e contrastata figura di un politico con molte ombre e poche luci, un politico che resta un padre nella sua solitudine, in un finale di partita che prescinde da ogni vera o presunta ruberia, da ogni intrigo di potere, da ogni sogno infranto e da ogni sguardo della storia. Amelio ha raccontato la solitudine di un padre che si incrocia con la solitudine della fine del potere, uno sguardo all’isola, mentre l’isola si allontana.

Tonino De Pace (pubblicato su Diari di Cineclub n.80)

Regia: Gianni Amelio

Interpreti: Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Silvia Cohen, Renato Carpentieri, Claudia Gerini, Giuseppe Cederna, Federico Bergamaschi, Roberto De Francesco, Omero Antonutti, Adolfo Margiotta, Massimo Olcese

Distribuzione: 01 Distribution

Italia, 2020

Durata: 126’

tolo tolo 1Se sono dette tante, prima di vedere il film e altre nell’immediatezza della sua uscita. Ne hanno parlato i politici, ne hanno parlato le trasmissioni TV. Tolo tolo di Checco Zalone, che già nel nome d’arte cela, ma rende anche esplicito, il suo fare spettacolo attraverso una comicità rustica e popolare, ma efficace, diretta nella sua semplicità articolata, è diventato un fenomeno nazionale, un evento da prima pagina, preceduto da un’attesa spasmodica che si è fatta evidente con le proiezioni notturne nella mezzanotte tra il 31 dicembre e il 1° gennaio. Forse il compito è quindi quello di provare a capire cosa ci sia in tutto questo clamore che finisce, con l’essere, inevitabilmente sproporzionato, rispetto al fatto in sé: l’uscita di un altro film che possa permetterci di riflettere attraverso la comicità o comunque attraverso il divertimento (o anche evitare di farci riflettere), su un tema che tutti ci riguarda, sul quale si fa un gran parlare e dentro il quale si annidano spesso luoghi comuni, soluzioni improvvisate, visioni parziali e tutto il resto di un armamentario che conosciamo. Non pensiamo che Zalone, o meglio, Medici, ritenga di avere in mano le soluzioni per rimediare ai problemi dell’emigrazione, forse vuole solo dire la sua e lo fa come sa farlo meglio. Sicuramente l’autore - che scrive la sceneggiatura in collaborazione con Paolo Virzì - ha solo voluto, attraverso lo strumento della comicità, che per sua natura veicola i messaggi molto più rapidamente che altre forme di spettacolo a più lenta conduzione, innescare quel meccanismo che è proprio dell’umorismo e cioè quello del paradosso come passepartout per entrare in un mondo fatto di una inafferrabile complessità che per sua natura non è terreno di coltura della risata pena il politicamente scorretto. Zalone prova a ridurre lo scenario ad una dimensione più accessibile per potere mettere in scena pregi e difetti, manie e peccati di un italiano che resta sempre medio e mediocre come già lo erano i personaggi interpretati da Alberto Sordi.

Lo strumento della comicità, per quanto da lunghissimo tempo utilizzato, risulta sempre efficace poiché ribalta i termini della discussione, rovescia i criteri di giudizio e le leggi che regolano la convivenza. È lo stesso meccanismo che utilizza, in modo più estremistico e per questo quasi nonsense, Albanese con il suo Cetto Laqualunque campione di trasgressione e di aperta violazione della legge che nel suo mondo diventa la disciplina della convivenza. In altre parole il negativo di una immagine che fa risaltare, per ragionamento a contrario, il suo positivo. Zalone è della stessa scuola, ma con un pensiero diverso, un differente approccio. Il suo personaggio agisce sempre dentro le coordinate di una realtà assolutamente riconoscibile e contemporanea, diversamente da quella aumentata e iperbolica di Cetto, così era in Cado dalle nubi, così in Quo vado? e così continua ad essere in Tolo tolo. Zalone-Medici ha bisogno che la sua sia una realtà vera, nella quale lo spettatore si possa riconoscere poiché, altrimenti, le sue pasquinate non avrebbero lo stesso effetto.

I personaggi da lui interpretati sono pienamente calati dentro la deformazione corrotta della realtà e ragionano e agiscono secondo differenti criteri, privi delle sovrastrutture del pensiero, istintivamente, poiché l’operazione di Zalone in questo film e, mutati mutandis, negli altri, è quella di denudare il suo protagonista, renderlo visibile così com’è, asservito alle leggi del potere, asservito anche alla elusione delle leggi, asservito alle mode e alla pubblicità. Checco non fugge in Africa per protesta, ma per non pagare lo Stato e i suoi creditori. Se fossimo nella realtà sarebbe un’altra indagine delle Iene alla caccia di un altro evasore. Zalone ha bisogno di essere riconosciuto e riconoscibile dai suoi spettatori, ha bisogno che lo sentano uno di loro o quasi come uno di loro. Se le stesse storie fossero ambientate in quella realtà iperbolicamente diversa e contraria (come fa Albanese, per intendersi) il suo personaggio e la sua comicità perderebbe di mordente poiché la sua comicità nasce, come quella di Sordi, dal mettere in scena la mediocrità attraverso la codardia, la raccomandazione per il posto fisso.tolo tolo 2

Il suo personaggio è, paradossalmente, dunque più vicino a Fantozzi che a Cetto Laqualunque. Vi è una dominante che avvicina i pensieri di questi due personaggi smarriti. Poi, sicuramente nei personaggi del regista pugliese non vi è quella dignità dell’umiliazione che ha fatto grande e tragico Fantozzi, non vi è l’imbarazzo fantozziano patetico e mortificato, succube di ogni dominio, non vi è la drammaticità della solitudine, ma vi è quel desiderio di manifestare le debolezze, alcune piccole virtù. Soprattutto non vi è la volontà di un dramma più universale, dove i personaggi di Zalone restano e funzionano perché italiani. Oggi come allora riconosciamo in queste maschere da commedia dell’arte, pezzi di questo nostro Paese, ne ridiamo, ma sappiamo anche che in quelli larga parte della nostra collettività ci si specchia.

Il cinema di Zalone per tutte queste ragioni e per le altre che da sempre accompagnano la commedia natalizia, ha creato delle aspettative e fino ad oggi è stato un evento mediatico nel quale la gente, molti media, hanno cercato con affanno spasmodico un “talento” che fosse capace di prendere in mano la situazione sempre difficile del cinema italiano. Il regista e il suo personaggio, sovrapponibili nella loro dualità, diventano nell’immaginario una specie di uomo solo al comando, un po' come succede in politica. Zalone, da parte sua, fa il suo onesto mestiere e non crediamo che egli pretenda di scrivere pagine memorabili o abbia il desiderio di diffondere opinioni inconfutabili. In Italia quest’anno sono usciti circa duecento film e Tolo tolo è solo uno di questi.

Ma poiché il cinema è anche spettacolo, non vi è dubbio che Zalone abbia in mano il talento giusto per diventare un intelligente uomo di spettacolo che intuisce i meccanismi e sa cogliere quell’angolo buio che invece va illuminato. Come sa cogliere i tempi e i modi per spettacolarizzare ancora di più l’evento. L’operazione mediatica, perfettamente riuscita, di lanciare il trailer del film con immagini e musiche che nel film non ci sono, è forse un effetto specchietto per le allodole o invece un interessante depistaggio per lo spettatore? Ci pare che l’operazione pubblicitaria, originale e inattesa, abbia sparigliato le carte, confuso i termini e scatenato commenti e avventati giudizi, un po', ancora una volta, come accade con gli exit pool. Immaginiamo il divertimento di Zalone nell’avere innescato un putiferio e una classica tempesta in un bicchiere d’acqua.

È in questa ulteriore dualità che sta il bello dell’operazione Tolo tolo, in una serie di intuizioni che si fanno spettacolo. Di sicuro questo film deluderà molti, come effetto di rimbalzo di un’attesa che resta, in fondo, ingiustificata. Luca Medici, complice Paolo Virzì, compie un’operazione attenta e mica male congegnata, sembra annunciare uno sviluppo e invece la sua verità risiede da un’altra parte e la sua Africa diventa il luogo delle contraddizioni, il suo amico coltissimo e lui ignorante, il luogo della solidarietà e della bellezza, ma anche di una violenza ingiustificata e feroce. Zalone prova a scardinare alcuni luoghi comuni sull’immigrazione, mettendo in ridicolo i comportamenti del suo protagonista quegli atteggiamenti che lo riportano di continuo ad una sorta di crisi d’astinenza da consumismo abbagliante e inservibile. Film largamente controcorrente, proprio perché destinato ad una popolarità sconosciuta agli altri titoli, e in questa immensa platea di sicuro molti storceranno il naso se sono vere alcune sensazioni che si raccolgono e si ascoltano sulla scarsa e generalizzata benevolenza degli italiani verso l’immigrazione. Zalone, più che in ogni altra occasione ci porta dentro una realtà contingente, sembra avere voluto mettersi in gioco definitivamente, firmando la regia quasi come manifestazione di intenti.

Di sicuro, in fondo, c’è una grande voglia di ridere, ma Zalone ci prende in contropiede e sa dosare la sua comicità che si fa rarefatta e a volte velata, quasi invisibile. Anche per questo il suo film, nonostante gli incassi, non troverà un consenso generale, ma per l’artista pugliese Tolo tolo, potrebbe costituire una cesura tra un prima e un dopo, tra un personaggio più giovanile ed uno più maturo, più consapevole, perfettamente inserito in una realtà che si percepisce, come complicata e per questo incomprensibile. È in questa incomprensibilità costante che Checco vaga in Africa, senza capire tradizioni e costumi, lingua e abitudini, sradicato dal suo Paese del quale non si sente più cittadino, un uomo senza patria e senza una bandiera. Zalone è diventato un apolide di necessità.

Tonino De Pace (articolo pubblicato su Duels.it)

Lunedì, 30 Dicembre 2019 09:33

Un giorno di pioggia a New York

La leggerezza e la genialità, il cinema e la musica, la città e il tempo, il passato e il presente, nell’incontenibile, eppure calibratissimo, ultimo film di Woody Allen che ancora, superati gli ottanta anni, ha voglia di mettersi a nudo e al tempo stesso mimetizzarsi tra i suoi personaggi, ha ancora il desiderio mai celato di raccontarsi e lo fa con un film di lampante lettura, al tempo stesso codificato, segreto e pubblico, in cui affida i suoi pensieri ad un giovanissimo personaggio, in una specie di decrescita felice dei suoi alter-ego. Un po' tutto questo, ma molto altro ancora, è Un giorno di pioggia a New York, parente stretto di Midnight in Paris, con un altro salto nello splendido sogno reale di un possibile al di là, di una eterna immanenza del passato affidando a Chan (Selena Gomez) che sembra uscita da Adieu au langage, l’esplicito ripudio della realtà.

La vita reale è per chi non sa fare di meglio

(dai dialoghi del film)

unagiornataUn giorno di pioggia a New York ci immerge, sin da subito, in un’atmosfera affetta da una innata e connaturata malinconia, sin da subito comprendiamo, su un versante strettamente narrativo, che la gita newyorkese dei due giovanissimi studenti, non sarà foriera di quella felicità annunciata e programmata. Il loro percorso sarà accidentato, pieno di imprevisti e di detour, di occasioni e di desideri, di scoperte e di conferme. In quelle poche ore sembra scorrere una vita intera, sembra che nulla possa mutarne il corso. Si ritroveranno trasformati, diversi, inadeguati, distanti e inconciliabili. Nessuna love story, la vita reale o sognata che sia, nel cinema come nella vita, cambia i desideri, trasforma le vite, apre ai compromessi. Woody Allen non ci spiega non intende raccontarci la storia di due innamorati, ma parla di sé stesso, della sua vita, di come avrebbe voluto fosse la sua vita, di come la sua vita in parte è stata. Di come avrebbe voluto lasciare la sua donna seduto al pianoforte, senza gelosia, come un novello Humprey Bogart degli anni 2000. Allen guarda, immaginando questa sua esistenza, sospesa tra il passato vissuto e il futuro ideale, tra le fantasie che per lui è possibile fare vivere sullo schermo, come da una distanza misurata, utilizzando telescopio e microscopio, valorizzando il tempo e mettendo il cinema in primo piano, come mai forse negli ultimi anni.

È proprio attraverso quei film e l’antica convivenza con quelle immagini che sembrano prendere forma pur restando quasi clandestini inserti subliminali che la sua stessa esistenza sembra prendere forma. Film che sono entrati a fare parte della sua vita biologica e che meglio esprimono quell’ultramondo così rarefatto, fatto di quei gusci straordinariamente vuoti che sono alcuni dei suoi ultimi film, tra i quali questo sicuramente.  Un giorno di pioggia a New York diventa così composita espressione fatta di una rohmeriana parvenza esterna, la brillante confezione dentro la quale la fascinazione del mondo dello spettacolo da parte di Ashleigh (Elle Fanning) come già in Lo sceicco bianco diventa tema deflagrante per la giovane coppia; ma è la stessa Ashleigh a rivivere una specie di incubo notturno che già fu di Paul Hackett nel Fuori orario di Martin Scorsese che aprì le porte ad un immaginario tanto notturno, quanto cinematografico non più riconducibile dentro le coordinate della veglia o di quella che si vive all’uscita di un cinema. Il già citato Casablanca film mentore e guida per Allen che lo porta con sé, come una specie di talismano e di costante vademecum per una educazione sentimentale. È con questo accumulo, solo apparentemente mimetizzato tra le pieghe di una trama che prende due differente direzioni, che Allen continua a raccontarci sé stesso, mettersi in gioco, forse anche ritrovare serenità dopo le vicissitudini del me too.

Ma in fondo lo sappiamo, tutto il cinema del regista americano, ha da sempre lavorato sulla propria biografia, facendola sentire storia comune, condivisa o almeno condivisibile su un piano di iperbolica probabilità. Il suo cinema non è stato solo l’emblema di intensi tormenti interiori di un intellettuale della classe agiata newyorkese, ma soprattutto il lamento di un Portnoy, mai soddisfatto di sé stesso, sempre inadeguato e fuori scala. Woody Allen era felice, nel suo passato, quando poteva confondersi tra la folla, quando l’anonimato poteva coprire i suoi vizi. Con il passare del tempo, con gli anni che si sono accumulati, il suo cinema, si è liberato di quella tormentosa “pesantezza” e di quel pessimismo profondo che rabbuiava, a volte, le sue storie, per librarsi leggero in una specie di volta dell’ottimismo. Ecco, quindi, i film stupendamente vaporosi, tanto facili da guardare, quanto sinceri nel loro svolgersi, Midnight in Paris (2011) e Un giorno di pioggia a New York su tutti. Allen prosegue quindi quel discorso ininterrotto che è parlare di sé e lo fa nel luogo più sicuro di tutti, sul set di un film, dove si sente a proprio agio, dove la vita può trovare una salvifica conciliazione. In particolare, con quest’ultimo film sembra solo voltare pagina per proseguire la storia dei personaggi di quello del 2011. Gatsby (Timothée Chalamet) e Ashleigh sembrano due versioni uguali e differenti di Gil e Inez di quel film come vivessero in una specie di labirintica nuova avventura della loro vita immaginaria. E di nuovo questi personaggi, anche se abbiamo notizie certe solo di quelli maschili, troveranno altri compagni per condividere la vita, troveranno quella serenità speciale che solo il rapporto d’amore vero e condiviso può dare. In questa prospettiva questi film restituiscono il realizzarsi dei suoi desideri e il regista/autore/protagonista desiderante sublima con il cinema un’assenza, un vuoto che si è aperto nella sua vita. Sono gli amori perduti e non trattenuti, le differenze incolmabili, gli scandali ad averlo costretto alla solitudine che ricorda quella orgogliosa, dei suoi splendidi single dei primi film.

Ma quante altre cose accumula Allen in meno di due ore di film, o meglio in un film di meno di due ore che contiene due film compiuti, uno per Gatsby, uno per Ashleigh e il terzo che da questi trae origine, per entrambi, quel film unico che si fa laica trinità indissolubile. Il suo narrare/non narrare si fa ricerca di una asciutta ed essenziale linearità in costante evoluzione. È così che quanto di accumulo narrativo vi era in Midnight in Paris, tanto di assenza vi è in questo ultimo. Un giorno di pioggia a New York, romantico titolo per uno dei più antiromantici suoi film, resta depurato da ogni possibile scoria o sovrabbondanza di racconto, tanto il suo procedere si fa inattuale perfino nella narrazione al presente storico, sospeso come è in quella atemporalità che elimina finanche ogni necessità dell’atto del narrare. Tutto ciò che sappiamo delle storie dei personaggi sta nel fuori campo, non occupa la scena, non infetta la purezza dei personaggi, così magnificamente vuoti e trasparenti, ombre viventi che dallo schermo scendono nelle strade della città, in un rinnovarsi e perpetuarsi della magia di La rosa purpurea del Cairo.

Gatsby e Ashleigh, nelle bolle dentro le quali vivono le loro differenti avventure trovano i pezzi delle loro esistenze passate per Gatsby e future per Ashleigh il che raddoppia il valore delle loro differenze. Gatsby rivive il passato e si rivitalizza con lo smog di New York, Ashleigh il futuro, il cinema, Pollard (Liev Schreiber) che reincarna i dilemmi esistenziali del giovane Allen e Ted (Jude Law), come i tanti suoi invidiati amici e conoscenti personaggi dei suoi film precedenti, con matrimoni naufragati e adulteri alle spalle, ma sfrontati, sicuri di sé e così diversi da lui e dalla sua sensibilità e dal suo umorismo autoironico e tipicamente ebraico.

Di sicuro il cinema per Allen è il luogo del suo eterno ritorno, del gioco infinito tra i fantasmi della sua vita, i suoi se stesso e i sé degli altri, che l’immaginazione del cinema torna a fare diventare reali, come Buñuel o Dalì o Eliot e Picasso, Toulose Lautrec o Gertrude Stein e i molti altri artisti e intellettuali che solo il suo cinema ha fatto diventare, nelle schegge delle loro apparizioni, veri e umani (Marshal McLuhan), contemporanei in un al di là che non ha tempo e poi New York, Manhattan, il luogo della terra che si fa sinfonia di una città profondamente amata e indissolubile dal genio del regista che, in fondo, non si è mai alzato da quella panchina di Sutton Place Park dalla quale contemplava la sua città, il Ponte di Queensboro e il suo East river, per tutta la notte con la donna della sua vita, in una delle tante, ma forse la più iconica, magnifica intersezione tra vita e cinema che è stato Manhattan.

Tonino De Pace (pubblicato su DUELS.IT)

Lunedì, 30 Dicembre 2019 09:28

Il terzo omicidio

Quando Hirekozu Ko-reeda, al Festival di Venezia 2017, incontrò la stampa per parlare del suo film Il terzo omicidio che concorreva nella sezione principale, centrò il suo intervento sul tema dell’indagine, del legal thriller e sulla figura dell’avvocato e del suo lavoro, riaffermando l’imperfezione delle nostre società nelle quali si delega ad alcune persone il giudizio su altre senza che i giudici sappiano davvero quale sia la verità. In realtà la verità è una sola, continuava il regista, ma è difficile, se non impossibile conoscerla completamente. Nel film, all’inizio tutto sembra chiaro, semplice, poi nasce l’ambiguità della verità.  

Dal sintetico resoconto sembra che Ko-reeda, in linea con il suo film e quale appendice in forma di note di regia, sia stato reticente e non abbia detto tutta la verità, il che per un autore è legittimo. In realtà, infatti, il suo film non è solo questo e sarebbe riduttivo riportare dentro coordinate così minime Il terzo omicidio che invece si adatta a più complesse riflessioni. L’altra ipotesi, è invece, quella classica, e cioè che l’opera viva di vita propria dopo la sua nascita e ciascuno dei suoi fruitori la utilizzi come meglio ritiene, in altre parole: la poesia è di chi gli serve, come diceva Massimo Troisi.

ilterzoomicidioPer cui, sulla scorta delle parole del regista, ma in parte dubbiosi sulla sua verità, nel gioco artistico secondo cui non tutto e non sempre può e deve essere svelato, proviamo a entrare nel mondo che Il terzo omicidio ci propone. A posteriori – in quanto l’autore nel frattempo ha licenziato altre opere – il film conferma di quanto il cinema di Hirekozu Koree-da venga da lontano e di quale raffinata prospettiva sappia offrirci nel coniugare la profonda complessità concettuale con una, non trascurabile e soprattutto non facilmente raggiungibile, semplicità narrativa che diventa marchio del suo cinema girato in oriente e forse meno evidente nella sua unica e recente escursione europea.

Sulla riva del fiume Misumi ha ucciso il suo datore di lavoro. L’avvocato Tomoaki Shigemori viene incaricato della sua difesa. Ma la verità, nelle diverse versioni date da Misumi, non è una sola.

Il terzo omicidio, a dispetto della sintesi nella quale può essere condensata la trama, è dunque un film complesso e a suo modo labirintico poiché ci si perde dentro, ci si perde soprattutto in quell’affastellarsi di verità sovrapposte che scombinano, ma solo apparentemente, la linearità di una consolidata procedura giudiziaria che solitamente vede il contrapporsi, consequenziale e quindi logico, del contraddittorio e che qui, invece, diventa discorso interrotto, mutevole atteggiarsi di una presunta colpevolezza o di una presunta innocenza. E forse mai i due atteggiarsi, contrapposti e antitetici della verità sono sembrati più evidenti, in perfetto equilibrio, senza partigianerie.

Tanto il film lavora nel testo con le sue superfetazioni di verità analoghe, tanto, invece, con chiarezza quasi cristallina, emergono gli effetti di quella messa in scena che lavora in sottrazione e che tanto fa, aumentando il quoziente del significante in relazione al suo contenuto e alzando il livello di una narrazione che resta sempre precisa ed essenziale, perfettamente chirurgica nel suo insistito rigore. Il film sottrae parole, forse sottrae perfino immagini, sottrae la consumata tensione da legal thriller classico, che qui con autentica invenzione narrativa, si trasforma in indagine etica, che si depura da ogni contingenza terrena per trasformarsi, nel finale, in una trascendente forma di conoscenza che non è più verità, ma è aspirazione verso la perfezione di un uomo che si sente sbagliato. Kore-eda purifica il suo racconto dall’ansia narrativa che stempera nella più complessa articolazione che soprattutto incide sulla forma del genere che avvolge la storia. Il legal thriller ha la finalità della scoperta di una verità che resta poi assoluta e non revocabile, l’autore giapponese interviene operando quasi una mutazione genetica nel genere. Il legal thriller nelle sue mani acquisisce una differente finalità. Non si conforma più come ricerca di una verità assoluta e per farlo si fa, invece, rivelazione di più verità, di più atteggiamenti, diventando un possibile catalogo delle forme morali dell’essere. Diventando, il suo protagonista, non più l’imputato di un processo, ma l’imputato dell’esistenza ed è egli stesso che si mette sotto accusa, la sua colpa non è più l’omicidio, ma il suo stare al mondo. Misumi sfugge alla verità, come in Rashomon ne racconta diverse, si fa ostacolo al suo avvocato che prova a tirarlo fuori dalla prigione. Se da una parte prosegue l’indagine legale con lo staff di Shigemori al lavoro, dall’altra quest’ultimo comincia a comprendere che Misumi non è la libertà che vuole, non è l’assoluzione che cerca, né rivendicare la propria innocenza. Per la semplice ragione che Misumi non è innocente, forse lo è dell’uccisione del proprio datore di lavoro, ma non lo è nel senso di quell’ottica trascendente che appartiene alla genesi originaria del genere umano.

È per questa ragione che si fatica a considerare Il terzo omicidio solo come il racconto dell’indagine di un avvocato sensibile e rigoroso che prova a difendere un cliente riottoso a dire la verità. Infatti, il tema centrale del film ci pare essere, piuttosto che l’indagine e la scoperta dell’omicida, quello della ricerca della verità come forma e atteggiamento cui improntare la propria esistenza. Alcuni individui non dovrebbero nascere si dice più volte nel film e questo tema della non esistenza al mondo in ragione di una colpa, diventa il tarlo etico del protagonista detenuto e l’avvocato Shigemori il suo maieuta che lo aiuta in questa difficile operazione di ricerca. Colui che cerca le soluzioni, colui che indaga per estrarre la verità.   

Kore-da, ancora una volta, ma qui con un’operazione molto interessante perché utilizza modelli narrativi conosciuti per mutarne le finalità, indaga sul tema che sembra essere divenuto centrale della sua poetica. È proprio un caso fortuito che il suo ultimo film si intitoli, con una specie di epifania lampante, La verità? Non crediamo che sia così e non crediamo neppure che il suo precedente Un affare di famiglia, al pari di questo, sebbene con strutture diverse e una maggiore semplicità d’impianto, altro non sia che un’altra variazione sul tema della rivelazione della verità che arriva in un finale al tempo stesso commovente e liberatorio. Con Il terzo omicidio il regista giapponese si serve della giustizia come metafora per l’affermazione di una verità sempre mancante e del tribunale come palcoscenico naturale dove si manifesta alla fine, la verità conclamata. Ma il regista sembra volere riaprire i giochi e dimostrare che il tema della rivelazione della verità è materia trascendente che sfugge al giudizio ed è questione prima privata, poi morale e nulla ha a che fare con la giustizia.

Poi ci sono la/le verità collettive quelle che invece trovano spazio nelle aule di tribunale, che si mettono al cospetto di un giudizio e sono molte, tutte possibili, ma spesso indicibili e infatti nessuno le dice davvero come conclude la giovane Sakie alla fine del processo. Siamo ad un livello diverso rispetto alla verità che appartiene alla coscienza dell’individuo, laddove il vero evento è la sua possibile rivelazione, tanto straordinariamente vicina quanto invisibile. Come la madre di Sakie che “non vede” gli abusi che il padre compie su di lei.

Misumi cambia più volte versione sul delitto che forse ha commesso: prima i debiti di gioco e l’usuraio da soddisfare, quindi un omicidio per bisogno di denaro; poi racconta di essersi voluto vendicare del suo datore di lavoro, quindi un omicidio d’impeto; ma successivamente dirà che è stata la moglie della vittima a chiedergli di uccidere, quindi un omicidio su commissione, da sicario; in una successiva sequenza sapremo che Misumi ha ucciso perché la vittima abusava della propria figlia e quindi ancora un omicidio per vendetta; alla fine Misumi dirà che non ha commesso alcun omicidio. Verità tutte credibili, tutte adatte e tutte (forse) false. Tanto il film provoca rivelazioni di verità, tanto le copre di quel riflesso di falsità che le opacizza, in cui si negano l’una con le altre, in una infinita autonegazione, come accade nel paradosso del mentitore.

Kore-eda in questo suo percorso artistico coerente e complesso sta forse provando a dimostrare ciò che intuiamo, ma spesso non diventa pensiero cosciente. L’impossibile ipotesi di una sola verità. Dopo Pirandello e Kurosawa abbiamo imparato che l’arte può indicarci il quadrivio tra tante verità da contemplare, come fa l’avvocato nell’immagine finale del film, Kore-eda, di suo, aggiunge la rivelazione come forma ultima e possibile che certifichi l’errore dello sguardo umano sui fatti. È lo stesso assunto di Un affare di famiglia ed è lo stesso di La verità.

Kore-eda ci porta a scoprire il fascino di un cinema rigoroso nella forma e nel contenuto, astratto e concreto al tempo stesso, che rema contro ogni possibile andamento dei nostri tempi dove l’immagine che manca è proprio la conoscenza originaria della verità che conserva la proprietà di ciò che esiste in senso assoluto e che non può essere falso.

Tonino De Pace (pubblicato su DUELS.IT)

Domenica, 20 Ottobre 2019 22:20

Martin Eden, onniscente e onnipresente

Nel, tutto sommato, rassicurante cielo del cinema italiano dell’ultima edizione della Mostra di Venezia, Martin Eden di Pietro Marcello ha rappresentato un inatteso fulmine che ha animato, diviso e quindi intercettato l’attenzione del pubblico.

In realtà il film del regista casertano ha anche avuto il merito di animare un dibattito che va al di là della semplice recensione e che sa, invece, di ricerca e studio della struttura di un film che conserva le caratteristiche non solo di una narrazione, ma di una più accurata indagine sulle caratteristiche strutturali dell’opera, con una coraggiosa dedizione all’invenzione e ad una mai banale creatività visiva.

Marcello aveva dimostrato le sue doti di originale manipolatore della materia del racconto con il precedente Bella e perduta in cui erano intimamente mescolati, tanto da costituirne ossatura indistinguibile dal racconto, elementi della tradizione popolare con la necessaria e mai invasiva mediazione della cultura del pensiero che faceva da raccordo narrativo all’interno del fantastico mondo dentro il quale i personaggi del reale si confondevano con quelli del mito, rivelando quel cinema la sostanza del sogno. Un approccio già inconsueto che nasceva come documentazione della contemporaneità, segnata dalla figura di Tommaso il custode della villa patrizia in rovina, e che approdava, invece, ad una rilettura del mito il cui mentore era Pulcinella, eterna incarnazione della saggezza filosofica del quotidiano.

Martin Eden prosegue, rinnovandosi, su quella strada e sembra avere chiaro l’autore che il suo intento non è tanto quello di mettere in scena il profilo meramente narrativo del suo soggetto, quanto piuttosto, attraverso il suo cinema, dare vita ad una struttura diegetica del tutto a se stante e non replicabile, film dopo film, se non nella sua ideazione che faccia riferimento ad un mondo esistente, sulla carta e solo nel cinema, ma al tempo stesso credibile e vivente. Un sistema complesso nel cui impianto risultano metabolizzati e quindi pienamente organici alla struttura complessiva, più elementi che messi insieme conferiscono all’opera una originalità che sorprende lo spettatore. Tutto appare però perfettamente calibrato secondo un profondo accordo tra le parti differenti, con un effetto visivo finale che fa della coerenza istintiva un insieme complesso, solo apparentemente semplice e, ma sempre naturale. Pietro Marcello sembra quindi dedicarsi più alla ricerca di una lingua che possa tradurre le sue illuminazioni da riversare nell’ambiente del suo racconto, più che al puro atto espositivo. In altre parole, più all’invenzione che attinga all’immaginazione utopica, che alla stretta coerenza dettata dal testo dal quale si attinge. Una ricerca che coniuga in modo innovativo il profilo intellettuale delle sue operazioni e quello più strettamente legato alla tradizione più popolare. Sono queste le scommesse, fino ad oggi vincenti del regista e Martin Eden conferma ampiamente queste sue doti non comuni e anzi un po’ aliene nel cinema italiano, almeno con l’intensità e la resa visiva che il lavoro fin a qui svolto dal regista campano ha comportato.

Immaginiamo che il film, in cui convivono più epoche e più riferimenti a temi differenti della nostra storia, dai fascisti in camicia nera e fez agli immigrati, dalla televisione e alle automobili anni ’60 fino alla nascita del partito socialista, tutto apparentemente riversato in un ambiente borghese di primo novecento, abbia avuto bisogno di un profondo lavoro di scrittura, ma anche di ricucitura scenografica utile a restituire, pur nella fantastica forma dello scenario, una sua logica interiore che restituisse compattezza e verosimiglianza nel rispetto del mondo ideale che è stato costruito. A questo proposito è notevole l’analisi che compie Roberto De Gaetano, pubblicata su fatamorganaweb. De Gaetano individua proprio nella attenta destrutturazione il portato principale del lavoro di Marcello. Il regista parte dalla sua Napoli – perfettamente descritta da De Gaetano riprendendo Benjamin – come città porosa, quindi permeabile e qui permeabile anche al tempo che coesiste. In questa permeabilità si ritrova anche la sintesi del mito – prosegue l’autore – che resta rappresentata dagli inserti d’archivio che uniscono la quotidianità novecentesca alla grande storia di quel secolo, svelando la “sintesi mitica” della finzione messa in scena. La privazione di ogni “portato mitico dà senso alle immagini d’archivio” conclude De Gaetano.

Queste considerazioni consentono di meglio riflettere anche sulla poetica di Marcello la cui cifra espressiva è in parte fondata anche su questi reperti del passato. I suoi film sono ricchi di queste immagini iconiche o meno e sembrano fare riferimento ad un mondo ideale al quale l’autore sente di appartenere e riversa questa aspirazione nella sua espressione cinematografica, diventando le sue immagini inscindibili dal profondo legame che l’esito della narrazione, così arricchita, sa dimostrare anche sotto il profilo di una costante coerenza.

Proprio la naturalità o meno, la coerenza o l’incoerenza di queste, nella finale costruzione dell’opera film, ha costituto argomento di dibattito attorno al film. Riteniamo che le riflessioni di De Gaetano, sommariamente riportate, abbiano centrato il tema che ruota attorno al clima che il regista è riuscito a realizzare attraverso la coesistenza di tempi e di spazi differenti. Marcello è riuscito a creare attorno al suo personaggio onnisciente e onnipresente, un universo quotidiano in cui convivono i tempi e le immagini che non sono “archivi visivi”, ma temi viventi e quindi contemporanei. Questo il salto di qualità che il film ha voluto compiere quello cioè di ricreare nel cinema il volto di un presente inesistente, ma reale, consustanziale al passato e al presente di qualsiasi contemporaneità.

Il film di Marcello, nel Concorso principale, è stato premiato per l’interpretazione di Gianluca Marinelli, il quale, soprattutto nella prima parte, ha saputo restituire al suo personaggio vagante nel tempo, quella rabbia necessaria e quella volontà d’animo che costituiscono i fondamenti essenziali della ricerca e alla fine dell’approdo ad una nuova condizione. È proprio questo il percorso del personaggio, che in questo riflette quello del romanzo al quale il film si è ispirato. Marinelli ha imboccato la strada giusta – gli perdoneremo qualche eccesso di troppo nell’ultima parte – ricevendo per questo la meritata Coppa Volpi per il migliore attore.

Tonino De Pace

(da Diari di Cine Club n. 76, ottobre 2019)

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