L’IMMAGINARIO SOSTITUTIVO DEL CINEMA

logo zVogliamo, ancora una volta, ragionare su quello che appare più evidente e dimostrare le grandi potenzialità del cinema, che si traducono in quella potentissima funzione di creare un immediato immaginario visivo che sembra, altrettanto velocemente sostituirsi a quello che conosciamo, che ci siamo costruiti e che viviamo anche senza rendercene conto.

È decisamente questa la funzione essenziale cui assolve il cinema ed è assolutamente questa quella che in fondo ci conduce di volta in volta ad una immaginazione sempre differente, sempre più liberatoria, sempre più affascinante.

È su queste fondamenta che abbiamo immaginato la coda visionaria della rassegna primaverile del nostro Circolo e come avevamo promesso a marzo, passata la pausa di aprile, rieccoci a maggio, per una tre giorni, in tre settimane, per una carrellata di immagini che ci portano direttamente dentro una fascinazione più grande di noi, con tre altrettanto potenti racconti che sembra vogliano radicalizzare ogni desiderio di visione e al tempo stesso prosciugare, dentro questa benefica implosione/esplosione delle immagini, ogni altra possibile immaginazione, traducendo con l’azione pratica dell’opera, la primaria forza del cinema per esprimere l’inesprimibile altrimenti.

Appartengono di diritto a questa categoria i tre film che completano la nostra rassegna primaverile, la prima dopo tre anni di sosta. Si tratta di tre film che si iscrivono altresì alla categoria degli “imperdibili” non solo per la loro qualità indiscutibile, ma per il loro valore artistico in sé che travalica il senso comune del cinema, il senso della narrazione per approdare al cinema come strumento di conoscenza e a quella verità godardiana che fa da sottotitolo, che la vuole, grazie al cinema, moltiplicata per 24 fotogrammi al secondo, anche se oggi si dovrebbe dire a 25 adattando la citazione alla nuova tecnologia digitale.

Il crescendo della breve, ma davvero densissima rassegna parte con il film del cinese Zhang Yimou che non si è mai distaccato, nonostante le sue derive puramente narrative del wuxiapian, da un concetto di cinema puro, anzi purissimo nel quale sperimentare la tradizione, come avveniva nei cromatismi visionari di quei film, o come avviene in questo One second nel quale il regista cinese recupera un’idea di cinema ai confini tra il popolare e il didattico, con il tocco poetico di una visione che dura appena un secondo, ma che sa riempire la vita del suo protagonista. One second gioca le sue carte in quella trasversale riflessione sul tempo del cinema e della sua percezione, sulla immaterialità del presente e la materialità del passato, sulla funzione quasi terapeutica delle immagini in grado di farsi sostitutivo di ogni utopia fosse anche fatta di una quotidianità, ma irraggiungibile. Un film commovente striato di quei segni indelebili della poetica zavattiniana del pedinamento dentro un piccolo universo dolcemente citazionistico che sembra quasi consolare lo sguardo.

Il secondo film in cartellone è il georgiano Cosa vediamo quando guardiamo il cielo? Di Alexandre Koberidze. Un film contemporaneo ed astratto, filtrato dalle immagini leggere di una immaginazione che raccoglie le sue istanze da quella cultura a cavallo tra la fantasia orientale e quella occidentale in quelle terre di confine come le regioni caucasiche influenzate da entrambe le due forti culture. Il film è una storia d’amore che non si sviluppa dentro le forme del melodramma, ma trova la sua forma in una specie di fiaba moderna dentro la quale il giovane regista georgiano, come scrive Massimo Causo su Duels, sa trovare l’equilibrio tra la narrazione scanzonata, ma sublime ed espressiva del suo conterraneo più anziano Iosseliani e l’asciutta parabola esistenziale di Bresson con quel cinema essenziale e formalmente ineccepibile, laddove forma e contenuto trovano la proficua commistione. Anche questo film, come e anche più del precedente, rinnova quel patto tra spettatore e film affinché quest’ultimo costituisca dispositivo dentro il quale possa proliferare quell’immaginario sostitutivo che il cinema sa essere nella sua massima espressione.

Si chiude, sulle soglie di un’estate che sarà incipiente, con il grandissimo film firmato da Alexandr Sokurov. Fairytale costituisce uno degli approdi più alti del cinema del regista russo. Completamento e lavoro innovativo di uno dei temi della sua poetica che in più occasioni e con una trilogia di impeccabile qualità si è occupata del potere e delle sue forme, del potere e dei suoi interpreti. Fairytale si muove dentro questo spazio di riflessioni e con la sua natura di favola nera, tra scenari di grandiosa immaginazione nati dalla contaminazione di due artisti eccelsi come Piranesi e Dorè, riporta il suo discorso sulle dinamiche di un potere spento così come i suoi interpreti, in un limbo di un al di là nebbioso e sconvolgente. Figure di ex potenti, ridotti a marionette di sé stessi che tra battute e dispettucci mostrano quella povertà di sentimenti con i quali hanno guidato le loro comunità e nazioni. Qui il cinema sembra dovere abbattere ogni barriera temporale e spaziale, dimostrando, in una luce illuminata da un antico e originario bianco e nero, l’assenza di ogni frontiera e di qualsiasi recinto, muovendosi sempre nel vasto spazio dell’immaginazione, in una visione definitiva che si fa materia della nostra fantasia.

Si tratta dunque di tre sguardi provenienti dall’Est, di tre fiabe raccontate con le immagini d’autore di tre grandissimi artisti del cinema e da qui al titolo di questa parte di rassegna da offrire ai soci il passo era davvero breve. Ora non resta che goderseli in tutta la loro bellezza.

Tonino De Pace

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