AMANDA – QUEL GIORNO D’ESTATE
C’è il futuro e il passato nel presente di Amanda.
Amanda solo molti anni dopo avrà compreso che una partita di tennis non è mai finita fino all’ultima palla giocata e che, soprattutto, la vita non finisce mai di stupire e ci indica da sola dove trovare l’energia per superare i traumi dopo una tragedia, dopo una terribile prova che muta radicalmente il nostro mondo, stravolgendo ogni coordinata della quotidianità che si vive.
Il rischio che Mikhaël Hers (già regista di Ce sentiment de l’été), nel realizzare un film in fondo semplice come Amanda, decide di prendere non è trascurabile.
Sullo scivoloso terreno del terrorismo Hers decide di guardare agli effetti collaterali senza entrare nel merito né nella complessità del fenomeno alla ricerca delle cause. Piuttosto il regista parigino prova a catturare l’attimo storico in una prospettiva futura, senza guardare alle conseguenze sociali che il gesto folle di un omicidio collettivo comporta. Amanda piuttosto che un film sul presente è dunque un film sul futuro, dove i sentimenti che lo percorrono diventano cura necessaria a ricostruire il tessuto vitale attorno alle gravi ferite che si sono aperte nella vita di Amanda e dello zio David che le farà da tutore.
Da tempo la cinematografia francese ha dimostrato di sapere utilizzare molto bene le dinamiche familiari, basti pensare alle fitte relazioni dei film di Guédiguian o a certa filmografia di Ozon ovvero a film più recenti come ad esempio I figli degli altri di Rebecca Zlotowski o agli estremi risvolti di una maternità conflittuale come in Saint’Omer di Alice Diop o, ancora ai risvolti psicologici che si possono leggere in un film recente come L’accusa di Yves Attal.
È proprio dentro la novità dei rapporti familiari larghi e insoliti che il film di Hers si sviluppa, in quella assidua scuola quotidiana per entrambi i protagonisti, dentro la quale ritrovare le ragioni del futuro con quell’insegnamento del passato necessario retroterra di emozioni e sentimenti. È in questa stessa prospettiva che Hers lavora sui dialoghi sapendoli rendere credibili ed efficaci. Va riconosciuto il merito a questa cinematografia di avere coltivato negli anni un’attenzione particolare alla scrittura dei dialoghi, non crediamo in fondo che si tratti di una scuola, ma sicuramente di una tradizione che si rinnova ancora in questo presente. Dopo le tracce di un passato nobile (Truffaut, Rohmer, veri inventori di dialoghi e poi gli altri che sono seguiti anche nel cinema più recente come il Philippe Le Guay di Moliere in bicicletta e Le donne del 6° piano - entrambi proposti nelle rassegne del Circolo “Zavattini” - e molti altri) film come Amanda, ma anche quelli citati in precedenza come Saint’Omer ad esempio, vivono sulla sensibilità delle parole, sulla verbosità asciutta del testo, sulla essenzialità della parola. Così come i dialoghi nell’aula giudiziaria nel citato L’accusa o nel non dimenticato - e già visto nell’ambito della rassegna 2017 - La corte di Christian Vincent, non mancano di svelare le psicologie dei personaggi, il loro retroterra culturale, il loro profilo sociale.
I dialoghi di Amanda lavorano su quello stesso profilo minimale sul quale il film si assesta, ma non per questo lo sguardo di Hers è meno acuto nel restituire allo spettatore il senso di un presente in funzione di un futuro ancora sconosciuto, ma tutto da costruire.
È un’ennesima complessa ricostruzione che il film ci propone - ne abbiamo vissute molte al cinema di ricostruzioni di una vita e di una personalità - attraverso gli occhi e i desideri di una bambina che, all’improvviso, perde il principale punto di riferimento e deve, malgrado tutto, costruirsene altri, immaginando una partita da giocare fino alla fine. David e Amanda ridefiniscono il concetto di famiglia che resta fondato ma solo in parte sul legame genetico, quanto piuttosto sui postulati sentimentali che i due provano a condividere. La piccola Amanda con le sue esigenze infantili e lo zio, ventiquattrenne, con l’invenzione quotidiana di questa nuova paternità caduta tra capo e collo nella sua vita, in questa prospettiva diventano i protagonisti di un racconto più profondo che non coinvolge solo il tema eterno della elaborazione del lutto, ma piuttosto l’instaurazione di regole di convivenza che debbano superare i soliti steccati di un rapporto genitoriale per gettare le fondamenta di un nuovo ordine familiare in funzione dei nuovi presupposti sui quali si è generato. Una prospettiva non troppo lontana dalle teorizzazioni familiari complesse alle quali ci ha abituato Hirokazu Kore’eda (una delle quali completerà questa rassegna) e che sembra, complessivamente, vogliano ridisegnare le mappe familiari puntando al peso dei sentimenti, piuttosto che ai legami di sangue. Amanda non viaggia su questi estremi confini sui quali, invece, ritroviamo le storie del regista giapponese, ma sicuramente, nel livello subliminale sul quale ogni film lavora, sa imbastire un racconto nel quale la componente di una familiarità diversa non solo è possibile, ma diventa necessaria in una più complessiva mutazione sociale alla quale si assiste.
In questo passaggio, ma non solo in questo, il racconto di Hers sa trasformarsi in una storia più collettiva, raccontando il microcosmo familiare e la tragedia che fa da scenario e fondale sul quale si muovono David e Amanda, ma con lo stesso smarrimento con il quale il macrocosmo sociale vive la paura e il senso di un oscuro futuro. Ma allo stesso tempo, il film di Hers ha il pregio di sapere indagare con estrema leggerezza - ed è forse questo il suo pregio maggiore - sul senso del vuoto dell’assenza, del vuoto delle parole mancanti e di rimarcare, quanto di questa assenza si renda evidente nei piccoli gesti in tutto ciò che diamo per scontato, in quella vita quotidiana che dimentichiamo in fretta apparentemente senza peso in una sorta di “usa e getta” connaturato alla stessa fluidità del quotidiano.
Il film di Hers forse potrebbe trovare accuse di sentimentalismo, di buonismo a tutti i costi. Ma questo racconto a prima vista legato alla languida poesia di un’orfanella, traduce, al contrario e anche più largamente, il senso di un futuro incerto e ci obbliga a chiarire quali siano le prospettive di un’infanzia già oppressa, affamata e derubata. Il futuro che implica il presente dei conflitti bellici o di quello che ci disegnano le terree previsioni dell’assetto di un ambiente via via sempre più inospitale.
È per tutte queste ragioni che Amanda smette di essere un film sulla contemporaneità per trasformarsi in una riflessione sul futuro e sulla paura, sulla fiducia, ma anche sull’assenza, sull’insicurezza, sul controllo di Polizia anche al parco. La riflessione di Hers, in fondo è semplice, ma non semplicistica e non risolve il problema (come potrebbe d’altra parte?), ma prova a riflettere per offrire una forse minimale - ma né semplice né scontata - risposta per una bambina di sette anni in quell’assenza improvvisa e in quei sentimenti che devono essere altrove indirizzati nel ricordo di un passato mutato in un presente diverso senza spiegazioni, ma con molte altre domande.